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Tre poltrone per un uomo solo, Matteo Renzi

Tre poltrone per un uomo solo, Matteo Renzi, costituiscono un record assoluto nella storia della repubblica democratica. Non esistono precedenti invocabili. Persino ad Alcide De Gasperi – signori, giù il cappello – frazioni democristiane negarono il doppio incarico di segretario di partito e presidente del consiglio. Né fa testo il caso De Mita, per breve tempo assiso su due poltrone, ma perseguitato da una petulante campagna di stampa orchestrata dalla sinistra sociale che contagiò presto anche il grande centro e acuì i contrasti fra Piazza del Gesù e il Quirinale. Con la gioia di un nugolo di esterni, già ampiamente beneficiati, che chiedevano a gran voce, per se stessi, nuove e lucrose poltrone.

Nella storia italiana, invece, ma in tutt’altro regime, il giochino poltronista riuscì bene a Benito Mussolini. Il quale, allo stesso tempo, fu capo del fascismo, diarca col re al vertice dello Stato, presidente del consiglio e ministro di ben nove dicasteri: esteri, interno, colonie, Africa Italiana, guerra, marina, aeronautica, lavori pubblici, corporazioni.
Renzi ha alzato la voce nella direzione del suo partito chiedendo una svolta radicale rispetto alla «palude» (termine che ha assonanza marcata con l’antiparlamentarismo mussoliniano). Si dirà che, messa ai voti, la sua proposta ha stravinto, lasciando a una minoranza lettiana il compito di costituirsi in quarta corrente ufficiale. Ma non c’è dubbio che Letta, il quale reclamava, a buon diritto, una evidenza istituzionale (cioè un voto parlamentare negativo), sia stato praticamente estromesso da Palazzo Chigi. Trascinandosi dietro l’intero governo, vale a dire ministri e sottosegretari non solo del Pd, ma del nuovo centro destra e dell’Udc. Nonché di scelta civica e frattaglie varie, non classificabili. Certo, quando la coperta è corta, non si può pretendere di tirarla di qua o di là, verso i piedi o verso la testa. Ma la decisione del Pd ha più il sapore di nuovo stalinismo che di esercizio di potere democratico. All’interno del Pd possono fare tutti i cambi di maggioranza che vogliono. Ma qui stiamo parlando di un atto di rilevanza istituzionale coinvolgente una pluralità di partiti, non un solo partito, oltretutto rappresentante del 25 per cento dei voti popolari e, dunque, per quanto attiene le valutazioni spettanti al capo dello Stato, un ulteriore problema concernente il restante campo politico pari a circa il 70 per cento dell’elettorato: nient’affatto una sciocchezzuola marginale.

Sarebbe imperdonabile se, fra un paio d’anni, l’economista Alan Friedman, riesaminando i suoi appunti su interviste audiovisive, dovesse fare osservare che, nel febbraio 2014, non c’era in gioco soltanto la sorte di un ministero, bensì quelle di un’Italia dalla crescita economica estremamente risicata, cui era peraltro collegato il combinato disposto di un impegno solenne, assunto da Renzi e Berlusconi, di procedere di conserva per dare al paese una nuova legge elettorale, un senato delle autonomie (ma non di altri nominati), una revisione del Titolo V Cost. e altre riforme. Cioè una nuova architettura costituzionale funzionale all’esercizio popolare della democrazia; ad un bicameralismo come quello proposto da De Gasperi-Mortati-Piccioni e Moro e bocciato da uno dei tanti compromessi fra destra e sinistra nel 1947; a nuovi assetti dell’ordinamento del lavoro; e, non tanto implicitamente, ai poteri reali dell’esecutivo e a una giustizia rispettosa dei liberi convincimenti dei cittadini ed essenzialmente garantista, non giustizialista.

La defenestrazione di Letta dal potere non rientra nei canoni della democrazia occidentale, anche se al presidente del consiglio non restava altra scelta che recarsi dimissionato al Quirinale. L’Italia ha bisogno di un governo che governi, non di partiti alla ricerca ossessiva di potere opaco. Ma se si lasciasse, ancora una volta, che i presidenti del consiglio fossero degli extraparlamentari o dei podestà forestieri di origine oligarchica, anche sul Colle verrebbero rovesciate responsabilità eccezionali – e non normali – circa l’esercizio reale della sovranità popolare.



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