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Ucraina, cronaca di un sogno di libertà

Torna subito a casa”, gli ha detto sua madre, appena ha saputo che il maggiore delle sue due creature era partito per Maidan, piazza di Kiev.
Lui non ci ha pensato mai, di tornare a casa. È rimasto lì, a “fare la mia parte”, dice semplicemente.

Il padre non si è opposto: fai quello che senti, e una pacca sulla spalla prima di partire. “Ho tirato fuori alcuni arnesi di quando frequentavo l’università, quella che voi chiamereste l’accademia militare: casco, giubbotto antiproiettile, qualche cambio, e sono salito sul pullman”.
Gli autobus partivano da tutta l’Ucraina, ma la gran parte arrivava a Kiev dalla zona occidentale del Paese, quella dove tanti avevano osato desiderare ciò che a novembre sembrava un sogno ormai sfumato: l’adesione all’Unione europea.

Volodia è saltato su uno dei pullman che partivano dalla sua città, e quando la mamma gli ha detto: torna indietro, hai un figlio, le ha risposto: è morto un mio amico che ne aveva quattro, di figli. È morto un ragazzo di 19 anni. Perché io dovrei nascondermi?
Così non si è nascosto, è partito. Quando è arrivato si è inserito nei turni dei manifestanti. Appurata la formazione militare è stato messo a controllare i documenti di chi voleva raggiungere la piazza, per evitare potessero esserci infiltrati. Turni di sei ore, quello del sonno altrettanto.

I giorni sono fluiti così, tra spari sulla folla, tragedie, morti (“Il numero ufficiale è inferiore ai cento, ma ci sono tantissimi mamme e papà che vanno cercando figli di cui nessuno sa nulla”), paura. Paura di essere presi da “loro”, da quelli che “non possono essere del nostro esercito: un militare, come sono stato anche io, non avrebbe mai sparato sul suo popolo”. Quelli che arrivavano da ovest erano più a rischio di altri. Se capitavi nelle mani di quelli, quelli che secondo i manifestanti erano infiltrati russi mandati a sparare sulla folla, potevi non superare il controllo del passaporto: verificato che arrivavi da una città dell’Ovest, potevi non uscirne vivo.

La regola era di girare in gruppi di 4, 5 persone al minimo, così che restasse qualcuno che potesse raccontare quel che aveva visto”.
In piazza Volodia non si è sentito solo. Ha incontrato tanti amici, tanti ex colleghi dell’Università, parenti lontani, giovani e meno giovani. Ha visto scene brutte, l’ultima una infermiera di 22 anni ferita alla testa, mentre aiutava a trasportare via un ferito. “Sembrava morta, poi hanno visto che respirava, l’hanno portata in qualche pronto soccorso”. Le centinaia di feriti sono stati portati in Polonia, gli ospedali non avevano più posto.

Gli ultimi giorni di calma apparente, in piazza, sono stati usati per ripulire al meglio lo spazio, “in onore dei nostri morti”. Pensano di poter tornare a casa, ora, ora che l’Europa sembra più vicina.

P.S. Visti i recenti sviluppi della situazione, Volodia, come tanti altri giovani, è stato richiamato a prestare servizio nell’esercito, in previsione di una escalation militare imminente.

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