Con le armi o con le urne, ormai da tempo è tutto un correre a ridisegnare le mappe, un gioco di separazioni più o meno consensuali, una corsa alla secessione: la Scozia e la Catalogna, i paesi Baschi e la Corsica, le Fiandre o la Sicilia (passando per la Sardegna), il Veneto e il Tirolo. Per non parlare dei Balcani dove la Bosnia, grande come il Lombardo-Veneto, è divisa in tre. Il Kosovo, il Montenegro, la Macedonia, anzi le due Macedonie, in lite tra loro anche sul nome (la Grecia sostiene che solo la sua ha il diritto di chiamarsi come la patria di Alessandro). E poi la Slovacchia che ha tranciato un solco con la Repubblica ceca, la Moldova piccolo cuscinetto tra Ucraina e Romania. E via via divorziando. Insomma, non c’è solo la Crimea, siamo di fronte alla “balcanizzazione dell’Europa”, secondo Lord Robertson ex segretario generale della Nato, laburista scozzese che si rivolge ai suoi compatrioti per invitarli a pensarci due volte prima di chiudere il vallo di Adriano.
Ma attenti, c’è secessione e secessione, ci ammonisce Bernard-Henri Levy, l’ormai appassito nouveau philosophe che si è fatto immortalare sulle barricate di Kiev: “Non si può paragonare Kosovo e Crimea”, sentenzia BHL tra le piume della sua vanità. Un vero truismo, direbbero i vecchi filosofi. E poi c’è sempre un distinguo, esiste sempre un’eccezione. Prendete il Kurdistan, mica può essere paragonato ai paesi sotto il tallone di zar Putin? Certo che no, infatti non esiste. I curdi sono schiacciati da almeno tre talloni: quello siriano, quello iracheno e quello turco e anche gli stivali sono diversi, la Turchia se non altro fa parte della Nato. Princìpi puri e principio di realtà, del resto, si sono sempre scontrati da che mondo è mondo.
La separazione democratica è diversa da quella imposta con il ferro e il fuoco, è ovvio. Eppure l’adesione alla Germania, l’Anschluss, venne approvato dagli austriaci (seppure sotto una qualche minaccia dell’esercito hitleriano). Dunque, non basta il voto, bisogna che sia libero, consapevole, trasparente e non come le urne di vetro usate in Crimea dal gran burlador di Mosca. Ma dividersi non è affatto facile, per i popoli e gli stati ancor meno che per le famiglie; anzi spesso non funziona proprio e si finisce per cercare un protettore, un grande amico, magari un imperatore benevolente pronto ad accogliere nelle sue braccia amorevoli la pecorella smarrita. E non vale solo per i nuovi staterelli dell’est europeo o del Caucaso, ma anche per entità con ben altro pedigree. Come ad esempio la Scozia.
Qual è la linea di demarcazione? Etnica? Linguistica? C’è di mezzo il mito, la storia, l’economia, la politica? Di tutto un po’, ma certo nelle Highlands il mito ha una importanza altrettanto grande che sulle montagne della Serbia. Gli scozzesi hanno combattuto per secoli gli inglesi. Morta Elisabetta I, fin dal 1603 con Giacomo VI Stuart hanno piazzato un loro re in Inghilterra aprendo la strada all’ Unione. L’autonomia è sempre rimasta viva, l’indipendenza è rifiorita con i nazionalismi ottocenteschi e di nuovo nell’ultima parte del secolo scorso. E tuttavia, una divisione etnica è difficile da digerire tanto profondo è il metissage nelle isole britanniche. William Wallace, l’eroe popolare, è riemerso agli onori con la cultura pop. Braveheart, il film di Mel Gibson, coglie il nuovo spirito del tempo, anche se trasforma il figlio di un latifondista che conosceva il latino e il francese in una sorta di capo di sanculotti in tartan. Persino il gruppo metal rock Iron Maiden ne fa l’eroe delle sue canzoni come The Clansman. La trasfigurazione conta più della realtà. Prendete il kilt.
William Wallace non indossava il gonnellino come lo conosciamo oggi. Ma, quando deponeva l’armatura di cavaliere la classica tunica medievale. Persino il plaid a scacchi e colori dei clan, il breacan, con il quale si cingevano i fianchi passandolo attraverso una spalla, è una moda introdotta solo due secoli dopo nel corso del ‘500. Quanto all’indumento a pieghe con tutti i suoi orpelli, diventato emblema di ogni “cultura e società celtica, irlandese, gallese, galiziana, è un’invenzione inglese e ha solo un flebile legame con il folklore o con indumenti degli antichi celti più o meno ricostruiti dagli archeologi. Proprio così. Nasce nei primi decenni del ‘700 grazie a tal Thomas Rawlison che si era rifugiato nelle Highlands anche per sfuggire alla chiesa d’Inghilterra che non amava le sette calviniste (tanto che furono costrette a emigrare in America). Altro che tradizione, è una operazione commerciale, del tutto capitalistica, al pari di Braveheart. Adesso li vediamo sventolare ovunque, in guerra e in pace, da settembre probabilmente copriranno gli scranni del parlamento scozzese. E’ stato il romanticismo a trasfigurare tutto, anche il kilt, ed è il nazionalismo che l’ha mistificato, rendendolo un simbolo importante quanto la croce di Sant’Andrea. E’ accaduto lo stesso a tantissime leggende che formano la cosiddetta cultura etnica e che con l’etné non hanno nulla a che vedere.
Trasformare un plaid in kilt è molto più facile che scegliere una nuova moneta. Infatti, i primi intoppi per il progetto di Salmond sono insorti proprio sulla sterlina. Un’idea, infatti, è quella di continuare ad usare la valuta inglese. “E già, e chi garantisce per il vostro debito”, ha subito replicato Mark Carney, il canadese che guida la Banca d’Inghilterra. Bisognerebbe introdurre dei meccanismi simili a quell’ambaradan che la Bce ha creato per i paesi che partecipano all’euro. Ma attenzione: la moneta unica continentale nasce con una debolezza di fondo, perché è priva di una politica fiscale comune. Dunque la Scozia potrebbe sì distaccarsi, ma dovrebbe lasciare a Londra quanto meno il controllo ferro sulle tasse e le spese, cioè sui due attributi fondamentali della sovranità di uno stato. Gli scozzesi fanno leva sulle riserve petrolifere nel Mare del Nord, molte delle quali sono al largo delle loro coste. Già, ma quanto al largo? E poi oggi sono gestite dalle grandi compagnie inglesi come la Bp e la Shell. Che cosa vuol fare Salmond, appropriarsene? Nazionalizzarle come Chavez in Venezuela? Ci provi pure sghignazzano i boss delle multinazionali. Dunque, la Scozia può essere indipendente, ma non sovrana. E qui comincia una discussione, anzi una trattativa durissima perché gli inglesi cercheranno di far valere il loro potere monetario contro la secessione.
“Ah sì? Allora noi adottiamo l’euro”, replicano gli indipendentisti. Fermi tutti. Il problema del debito si pone lo stesso. E in questo caso Londra avrebbe l’ultima parola. Non solo. All’idea di una Scozia indipendente che viene accolta a braccia aperte a Bruxelles, comincia a rumoreggiare Madrid. Indiscrezioni su un veto spagnolo sono circolate nelle capitali europee al punto che il governo di Mariano Rajoy ha dovuto smentirle ufficialmente. Una cosa è certa: la Scozia è il vessillo che sventolano in piazza anche i catalani i quali mai come questa volta chiedono non solo ancor più autonomia e poteri, ma di separarsi dai castigliani. Una catastrofe per il resto della Spagna perché a Barcellona e nella sua regione è concentrata la maggiore ricchezza. Ma anche per la portata davvero storica di una frattura che metterebbe fine a cinquecento anni di unità.
A differenza dalla Scozia, la Catalogna non avrebbe problemi di carattere monetario, visto che fa già parte della zona euro. L’integrazione piena in una struttura sovranazionale, infatti, favorisce il distacco dagli stati nazionali, anzi lo rende non solo fattibile, ma addirittura legittimo. E’ quel che sosteneva in Italia Gianfranco Miglio quando agli esordi della Lega Nord progettava le macroregioni e dialogava con i bavaresi della CSU, affascinati lì per lì dall’idea, o con gli svizzeri del Canton Ticino. E oggi Luca Zaia, tardo epigono proclama: “Il Veneto come la Catalogna, sono in ballo 21 miliardi di euro” (calcola le tasse che non andrebbero versate a Roma non quello che gli altri contribuenti italiani versano al Veneto). Il movimento Plebiscito.eu vuole la secessione e la regione guidata dalla Lega ha in discussione un progetto di legge per un referendum. Ma c’è anche chi chiede, con un sondaggio on line su affaititaliani.it, se la Sicilia deve seguire l’esempio della Crimea. Già, per andare dove? Verso gli Stati Uniti come sognava Finocchiaro Aprile nel 1943 quando sbarcavano i marines?
A Barcellona si voterà il 9 novembre, dunque dopo la Scozia che farà da battistrada e influenzerà necessariamente le altre iniziative indipendentiste. E il paradosso dei paradossi vuole che proprio questa Europa dei tecnocrati odiata dalle “estreme” e disprezzata da Beppe Grillo, questo super-stato burocratico, lontano dai popoli come dice anche Matteo Renzi, potrà consentire proprio ai popoli di esprimersi liberamente senza paura di restare appesi al nulla o di finire nelle fauci di un lupo siberiano o di un leone dell’Atlante. Perché il mosaico di stati europei è in gran parte una costruzione artificiosa.
Scrive Tony Judt in “Dopoguerra” che dopo il primo conflitto mondiale, con il disfacimento degli Imperi centrali e quello ottomano, vennero cambiati i confini, dopo la seconda guerra mondiale vennero spostati interi popoli, costruendo stati su base “etnica”. I singoli paesi nel 1939 erano ancora multiculturali e multireligiosi, nonostante i regimi fascisti, nel 1949 non più. Sono pressoché scomparsi gli ebrei, ma non solo: in Polonia i polacchi erano il 68% della popolazione oggi sono oltre il 90, la stessa Italia diventa più omogenea, mentre nei Balcani e nei territori occupati dall’Armata rossa, avviene un rimescolamento all’insegna di vere e proprie deportazioni.
L’Europa degli alleati vincitori, dunque, anche in occidente nasce alimentando il pregiudizio, una grave colpa che attraversa i decenni come un fiume carsico e riesplode prepotente con la fine della guerra fredda. Le guerre di Jugoslavia lo dimostrano. Gli Stati Uniti erano “distratti” da Saddam Hussein e l’Unione europea era ossessionata dalla “questione tedesca”, così la Germania che impose il riconoscimento unilaterale della Slovenia e della Croazia, considerati paesi satelliti, proprio mentre era impegnata a digerire il boccone degli Ossie. E cominciarono sette anni di stragi e flagelli le cui ferite non sono ancora rimarginate.
Il pregiudizio etnico è lo stesso che oggi opera come un verme nella pancia degli ucraini e dei russi, così simili da tutti i punti di vista e così lontani. Dove possono andare da soli questi staterelli che dovremmo chiamare da operetta se sul palcoscenico d’Europa non si recitasse un dramma? Non sono autosufficienti né sul piano economico né su quello militare. Quindi cercano un padrino. Il patronage può essere rude e opprimente come quello russo o morbido e avvolgente come quello europeo. Ma esiste un modello ideale al quale riferirsi?
E’ impressionante come oggi, mentre a ovest si diffonde l’euroscetticismo, a oriente, là dove il limes è ancor oggi confuso e mobile, si minacci una guerra per entrare nell’Unione, la versione moderna e benevolente del Sacro romano impero. Non è, dunque, una mera bizzarria da studioso, è emerso in questo mondo non più piatto, ma diviso in placche tettoniche, un desiderio di separarsi e riaggregarsi in modo diverso all’interno di entità nuove che meglio rispondano (o almeno così si pensa) ai bisogni di questa era. E che mettano in qualche modo rimedio agli errori dei vincitori, quelli compiuti nel 1945, ma anche quelli del 1989 e degli anni successivi all’implosione dell’Unione sovietica.
E’ il messaggio che arriva dalla Crimea e dalla Scozia (o dalla Catalogna), luoghi opposti gli uni agli altri anche sulla mappa geografica, ma luoghi dell’ira per il passato, dello scontento per il presente e (forse) della speranza per il futuro.
L’analisi completa si può leggere sul blog di Stefano Cingolani