Quanto trovate di seguito, apre un ciclo di approfondimenti che intendo condividere con i lettori di Formiche.NET e che riguarda alcune riflessioni sul rilancio del Mezzogiorno che ho sviluppato partendo dall’analisi e dal racconto di alcune iniziative imprenditoriali di assoluta eccellenza che si sono sviluppate in questi ultimi anni nella provincia più meridionale del Mezzogiorno d’Italia: la provincia di Ragusa.
La provincia di Ragusa può costituire un “distretto” con caratteristiche e peculiarità molto simili a contesti di eccellenza del Nord Italia come ad esempio quello di Alba-Bra che è una delle zone meglio sviluppate del paese e che ha saputo reagire bene alla morsa della crisi che pare invece attanagliare molti pezzi del belpaese interpretando al meglio le sfide imposte dalla globalizzazione.
Negli Iblei c’è un’ottima e moderna agricoltura che gode di un clima invidiabile, un’agricoltura di qualità e ben remunerativa, basti pensare a Planeta che coniuga la produzione vitivinicola a un sistema di strutture ricettive con cui fa accoglienza. E ci sono iniziative industriali molto promettenti e innovative.
Certo, vanno fatti dei distinguo. Se guardiamo alla storia delle Langhe, non possiamo trascurare il fatto che negli anni 60, ad Alba, la Ferrero di Michele Ferrero creava la nutella e il kinder. Due prodotti che hanno permesso a quella zona di avere un’industria capace di generare tantissimi posti di lavoro in tutte le aree aziendali, quindi posti altamente qualificati. Non possiamo ignorare che, grazie alla Ferrero, le Langhe non hanno conosciuto fenomeni di emigrazione, come è invece capitato per il Mezzogiorno d’Italia.
Il fatto che in un territorio rimangano le forze vive e vitali di ogni generazione fa sì che anche la rappresentanza politica sia adeguata. Perché persone che vivono bene in un territorio hanno anche una maggiore attenzione alla sua pulizia, alla sua bellezza. Hanno maggiore senso civico. E quindi chiedono e pretendono dalle istituzioni locali. Non solo fanno il mercato interno, il mercato di start-up di tante iniziative senza obbligare gli imprenditori a inventarsi modelli di business di primo acchito vocati all’export.
Nelle Langhe non c’è stato bisogno della supplenza dello stato centrale, di sussidi che inevitabilmente portano poi alle clientele e ai favori. Ecco, le principali debolezze del Meridione sono l’emigrazione e l’assenza di un florido mercato interno. Più ancora delle idee, delle risorse. Che fare dunque? Iniziamo a farci dele domande.
Le domande
Esiste la possibilità che, in piena globalizzazione, e nel bel mezzo di una delle più profonde crisi finanziarie della storia, la Sicilia possa rilanciarsi? Esiste una concreta opportunità che la Sicilia, e l’area iblea in particolare, possa avere un proprio made in Sicily?
Figure 1: valori in migliaia di Euro dell’export delle provincie siciliane
Made e non growth
In Sicilia, certamente, si producono tantissime cose, molte delle quali, nel settore agroalimentare. Cose buonissime e invidiatissime, ma pur sempre prodotti della terra che sono quanto di più lontano ci sia dai prodotti a valore aggiunto (capital intensive). Prodotti che devono essere spostati, e in fretta pure, per raggiungere ancora “freschi” i mercati ortofrutticoli di mezza Europa. Le tabelle sopra riportate (anche se si riferiscono all’anno 2005) mostrano chiaramente come sia assente il contributo della provincia iblea nella manifattura e trasformazione di manufatti in genere. E la situazione non cambia nei servizi. A meno di non ritenere che nel prossimo futuro l’agricoltura possa creare le condizioni per uno sviluppo economico che garantisca la sostenibilità economica della regione occorre evidentemente agire con un quanto mai urgente action plan.
Anche perché fare agricoltura oggi significa operare in una situazione di grande complessità della gestione e della produzione. Significa affrontare l’aumento dei costi di produzione senza poter influenzare in alcun modo il mercato.
Il costo elevato della forza lavoro, delle materie prime e dell’energia sono i fattori che impongono all’agricoltura di produrre di più con meno. Di essere molto efficiente. Un’agricoltura efficiente richiede l’introduzione nel sistema azienda di nuove competenze e tecnologie. E quindi formazione. E perché si diffonda la formazione nelle campagne e tra i principali protagonisti dell’attività agricola, è necessario che vi sia disponibilità di persone in grado di erogare questi servizi, e che ci sia la sensibilità da parte degli agricoltori al cambiamento, e alle novità. Né l’una né l’altra cosa sono processi semplici. E non sarà un caso che la Facoltà di Agraria di Ragusa ha aperto e chiuso i battenti.
E il problema rimane culturale. Perché la cultura diffusa vuole per i figli una laurea al Nord dove poi possono più facilmente trovare un posto di lavoro. In campagna, o non rimane nessuno, o chi della nuova generazione, la famiglia stessa ha ritenuto avere minori potenzialità.
E, come si direbbe da quelle parti, processi complicatissimi finiscono non governati, lasciati all’aggregarsi delle scelte dei singoli più confusi che persuasi.
Il motore di sviluppo, anche per l’agricoltura e per i tanti prodotti, made and not growth in Ragusa, non può che venire dalle collaborazioni universitarie, dalla ricerca e sviluppo nata dallo stimolo di chi sta con la schiena piegata. L’agricoltore che si fa imprenditore. Qualcuno si è mai chiesto, ad esempio, perché il caciocavallo ragusano non ha la stessa diffusione del parmigiano reggiano?
Ci vogliono centri di sapere che possono diffondere conoscenza e supportare coloro che operano nelle campagna, facendo poi di fatto da operatori di marketing dentro e fuori la provincia.
E occorre sostenere l’imprenditore agricolo che si trova a dover governare e discutere di problemi di origine chimica e biologica legati alla produzione, ad esempio quello che concerne i fitofarmaci che sono pratica comune in agricoltura, comprendere e applicare la legislazione che ne consegue nel loro utilizzo.
L’esempio del fuori suolo
“Questo clima che c’infligge sei mesi di febbre a quaranta gradi; li conti, Chevalley, li conti: Maggio, Giugno, Luglio, Agosto, Settembre, Ottobre; sei volte trenta giorni di sole a strapiombo sulle teste; questa nostra estate lunga e tetra quanto l’inverno russo e contro la quale si lotta con minor successo; Lei non lo sa ancora, ma da noi si può dire che nevica fuoco, come sulle città maledette della Bibbia; in ognuno di quei mesi se un Siciliano lavorasse sul serio spenderebbe l’energia che dovrebbe essere sufficiente per tre; e poi l’acqua che non c’è o che bisogna trasportare da tanto lontano che ogni sua goccia è pagata da una goccia di sudore; e dopo ancora, le pioggie, sempre tempestose che fanno impazzire i torrenti asciutti, che annegano bestie e uomini proprio lì dove una settimana prima le une e gli altri crepavano di sete. Questa violenza del paesaggio, questa crudeltà del clima, questa tensione continua di ogni aspetto, questi monumenti, anche del passato, magnifici ma incomprensibili perché non edificati da noi e che ci stanno intorno come bellissimi fantasmi muti; tutti questi governi, sbarcati in armi da chissà dove, subito serviti, presto detestati e sempre incompresi, che si sono espressi soltanto con opere d’arte per noi enigmatiche e con concretissimi esattori d’imposte spese poi altrove; tutte queste cose hanno formato il carattere nostro che rimane così condizionato da fatalità esteriori oltre che da una terrificante insularità di animo”. – Don Fabrizio incontra Chevalley – Gattopardo, Tomasi di Lampedusa
Don Fabrizio certamente vedrebbe con grande scetticismo il tentativo di innovare il modo di fare agricoltura in Sicilia. E per giunta non ebbe a conoscere la globalizzazione.
Il fuori suolo è una tecnica innovativa nel modo di produrre dalla terra, facendo a meno della terra. L’imprenditore agricolo, direbbe il fiorentino, cerca di erigere argini contra fortuna. Fortuna che è l’imprevedibilità del tempo meteorologico, i tanti parassiti che, nella metafora delle metafore, affliggono il terreno. Poi ancora, le spietate logiche di mercato.
Si svincola la pianta dal terreno perché sia curata in un ambiente protetto nel quale si cerca di controllare tutte le variabili (condizioni fitosanitarie, nutrizione, irrigazione). Con il vantaggio di poter aumentare la resa fuori dalla stagionalità. L’innovazione porta con sé un vantaggio competitivo: più prodotto per superficie sul mercato per più periodi l’anno. Ecco.
L’introduzione di questa tecnica in azienda non è indolore. Cambia completamente l’approccio alle coltivazioni. Ci vuole molta apertura e molta propensione al rischio e alle novità. Tipicamente tratti non comuni al mondo agricolo. E’ necessario un investimento iniziale sia materiale (impianti) sia immateriale (conoscenza e formazione). Perché dopo aver costruito le serre per le produzioni in fuori suolo queste vanno gestite e governate. L’agricoltore è costretto a gestire in tempo reale le variabili che influenzano lo stato di salute della pianta. Prendete ad esempio l’irrigazione. La frequenza, la durata e l’orario di somministrazione delle irrigazioni gestite completamente dall’agricoltore diventano fondamentali nel determinare la fornitura di acqua e il ricambio degli elementi nutritivi in prossimità della radice, l’umidità del substrato e quindi il suo indirizzo: vegetativo o generativo.
L’agricoltore ha bisogno quindi di essere accompagnato da consulenti specializzati o di specializzarsi egli stesso.
Due casi di successo nella filiera:
Nel ragusano in particolare nell’area di Santa Croce Camerina diverse sono le iniziative che stanno cercando di mettere a frutto queste tecniche.
E’ il caso di Mario Incardona e di Giovanni Nicotra, rispettivamente: imprenditore agricolo e tecnico agronomo. Il primo è giovane, dinamico interprete di una vera e propria agricultura. Galileianamente, con piglio e metodo sperimentale, ha avviato parallelamente più produzioni con substrati di diversa natura e con diverse condizioni di fertirrigazione allo scopo di individuare l’ottimale. Le produzioni fuori suolo di pomodoro pachino e datterino hanno dimostrato di essere superiori a quelle tradizionali.
Insomma il fuori suolo a Santa Croce può diventare come il kibbutz israeliano. Il lievito di queste iniziative sono l’entusiasmo e la sana voglia di farcela di imporsi sul mercato come capitalismo vuole. Un approccio questo che nasce solo se si sa ascoltare il mercato perché se anche si dispone di un buon prodotto esso va affermato sul mercato. E un buon prodotto diventa tale solo se tale è considerato dai consumatori. E Mario Incardona pare disporre di tutte le carte nel mazzo. Tanto è vero che ha fatto le sue indagini di mercato per definire packaging di prodotto (carta velina, pezzatura, colore) e della cassetta che lo deve ospitare. Perché i cosi belli s’anna taliari.
Il caso della Gold Green di Santa Croce Camerina
Mario Incardona è il fondatore di Gold Green di Santa Croce Camerina, realtà agricola dinamica e innovativa.
Gold Green nesce negli anni 80 per iniziativa dei cinque soci che ne detengono il capitale sociale e che l’animano, ciascuno, attraverso la propria specifica professionalità. La missione: quella di realizzare prodotti orticoli di qualità. E non si babbìa, si direbbe dalle parti Santa Croce Camerina, dove sorge la tenuta che ospita l’impresa. Dietro alle produzioni c’è una continua innovazione sia sul marketing, sia dal punto di vista produttivo. La Gold Green è una delle realtà iblee che ha adottato la tecnica di coltivazione fuori suolo. Il che vuol dire ripensare completamente l’approccio alla produzione orticola. Nuove serre, in acciaio, alte. Impianti produttivi che ospitano i substrati e le piantine. E ancora gli impianti tecnici per l’irrigazione e il riscaldamento. La consulenza continua di esperti anche esterni all’azienda. Un investimento importante che richiede sforzi e un piano marketing solido per avere un tempo di ritorno dell’investimento di tipo industriale.
Il marketing e la comunicazione sono gli strumenti necessari a fare del growth in Ragusa il made in Ragusa. Ovvero prodotti che siano riconoscibili tra i tanti altri prodotti da orto, possibilmente meno validi sul piano qualitativo, anche quando le differenze non sono immediatamente evidenti al cliente finale. Specie quando la grande distribuzione, per via delle enormi dimensioni, finisce col diventare, anziché un semplice attore della filiera, un soggetto in grado di deformare la comunicazione dei singoli produttori che referenzia.
E ci viene in mente quell’idea che tormentò la vita di Mimì La Cavera, primo presidente di Sicindustria, ovvero l’idea della Sirap (società per le incentivazioni reali delle aree produttive). La Sirap era un ente che doveva fornire alle iniziative imprenditoriali della piccola e media industria siciliana il necessario, in termini di servizi indiretti, per superare la fase di start-up. In chiave moderna, un ente che, fuori dalle logiche di lottizzazione politica, possa aiutare gli imprenditori nel mettere a fattor comune esigenze specifiche come ad esempio i rapporti di forza con la grande distribuzione.
Gold Green ha lavorato molto sulla presentazione del prodotto, sul packaging. Nei piani a medio-lungo termine c’è l’intenzione di una produzione tutta in fuori suolo. La melenzana violetta, il pomodoro Cherry Ciliegy sono al momento i due prodotti di punta.
Il caso del Centro Seia di Vittoria
Il Gruppo SIS rappresenta la realizzazione imprenditoriale del sogno di Mimì la Cavera, quello della verticalizzazione in agricoltura. Il Gruppo SIS fa industria in agricoltura. E lo fa mantenendo le radici ben salde nella provincia di Ragusa che, come la Sicilia, rappresenta un’opportunità. Per il suo clima, per le sue varietà. Perché altrove conta ancora molto, marketing a parte, dire che quel prodotto è growth in Sicily.
Il Gruppo SIS è leader a livello nazionale ed europeo nella sterilizzazione dei terreni, nella produzione di piantine innestate e nella produzione di piantine orticole e/o ornamentali destinate alla produzione fuori suolo. Le piantine sono allevate nei vivai del centro SEIA, azienda controllata dalla SIS.
Alle spalle di una delle realtà iblee più dinamiche un imprenditore: Diego Planeta, famoso per le etichette dei vini da lui prodotti.
Dato che la provincia iblea ha storicamente una fortissima vocazione agricola, fare industria in agricoltura è certamente uno degli assi più importanti per lo sviluppo dell’area. E il caso del Gruppo SIS, oltre a essere un caso di eccellenza, rappresenta un esempio riuscito di come la libera iniziativa, fatta di lungimiranza e apertura all’innovazione, sia l’unica alternativa concreta per traghettare il territorio, con la sua storia economica, nel futuro.
Solo grazie alla libera iniziativa che crea innovazione perché costretta a sopravvivere a se stessa, l’agricoltura, che si giova di quelle innovazioni, può mantenere la sua profittabilità e la sua ragione d’essere.
Senza dimenticare che l’agricoltura significa anche cura del paesaggio e che pertanto un’agricoltura, in crisi o troppo assistita, finisce col compromettere i luoghi dove viviamo.
Ecco, il Gruppo SIS contribuisce a garantire lunga vita all’agricoltura e agli imprenditori agricoli. Ammesso che le nuove generazioni abbiano l’occasione di comprendere le opportunità legate all’intraprendere un percorso imprenditoriale legato alla valorizzazione dei prodotti della terra. Fuori da una certa vulgata che ha invece associato al lavori nei campi l’immagine di un’attività poco redditizia, molto faticosa (più del lavoro in fabbrica), incapace di assicurare un futuro. Non è un caso che, proprio tra gli iblei, di persona ignorante si diceva che gli avrebbero dovuto dare la zappa. Non è un caso che di persona poco competente si dice che le sue sono braccia strappate all’agricoltura.
Fatto è che, tra quelli che ne sono stati strappati ingiustamente e quelli che lo sono stato giustamente, le campagne hanno continuato e continuano a spopolarsi.
Il Gruppo SIS inizia la sua attività, siamo nel 1967, specializzandosi nella produzione e commercializzazione di bromuro di metile. Il prodotto largamente più diffuso per la sterilizzazione dei terreni agricoli.
Il protocollo di Montreal del 1987 costituisce lo shock normativo che costringe il Gruppo SIS a intraprendere nuove strade. Il protocollo fissa, infatti, una graduale riduzione dell’utilizzo del bromuro di metile come prodotto chimico per la sterilizzazione dei terreni.
Come spesso capita nelle storie di successo, una minaccia si trasforma in una grande opportunità. La SIS avvia una strategia di sviluppo che punta a individuare le alternative al bromuro di metile. Furono avviate due importanti linee di sviluppo: a) la prima che puntava a individuare prodotti chimici alternativi al bromuro; b) la seconda che concentrava gli studi e la sperimentazione su piantine innestate che avrebbero dovuto avere delle caratteristiche di resistenza agli agenti fitopatogeni tali da poter essere poi utilizzate nelle produzioni in terreni non trattati con bromuro di metile.
Il Gruppo SIS porta avanti i due percorsi parallelamente. Percorsi fatti di ricerca e sperimentazione avvalendosi del proprio staff tecnico interno (agronomi, chimici) ma anche del supporto di consulenti esterni, di progetti con le Università italiane e straniere. In particolare con l’Università di Torino.
Nel 1991, il Gruppo SIS acquisisce il 100% di una società proprietaria di alcuni vivai, i vivai SEIA che diventano il luogo di produzione delle piantine innestate. E dato che la ricerca e la sperimentazione non sono attività semplici, specie in un settore che tradizionalmente ha un basso tasso di innovazione, la SIS decide di individuare un partner che possa aiutarla a vincere la sfida che le normative e l’evoluzione delle stesse impongono. L’individuazione di un prodotto chimico alternativo al bromuro di metile significa lasciare la società esposta al rischio di vedere il proprio prodotto bandito dal mercato per via di una nuova normativa. La strada più sostenibile a lungo termine è quella di produrre piantine innestate oppure “produrre fuori suolo” ricreando in serre costruite appositamente le condizioni di nutrizione, irrigazione e fitosanitarie atte a ottimizzare le colture.
La scelta ricade sulla Histhil, società israeliana leader mondiale nella produzione di piante orticole ed ornamentali che diventa un partner strategico sotto il profilo tecnologico.
Oggi il Gruppo SIS, pur avendo radici salde in Sicilia, nell’area di Vittoria in provincia di Ragusa, è un gruppo che opera a livello internazionale. Dal punto di vista produttivo il Gruppo si è insediato in Bosnia e in Francia. Mentre dal punto di vista dei mercati dopo aver esteso la sua area di influenza prima all’Italia meridionale e poi anche al Nord ha esteso ulteriormente il suo raggio d’azione all’intera Europa. 60 milioni di piantine innestate vendute ogni anno, una crescita di fatturato quasi sempre a due cifre, questi i numeri.
L’Azienda opera nel business to business con un modello distributivo fortemente verticale dove gli agenti SIS finalizzano direttamente sul cliente finale che è l’imprenditore agricolo l’attività di vendita. Che è poi, di fatto, un servizio di consulenza qualificato perché SIS non si limita a vendere le piantine ma ha come mission quella di supportare il cliente nella messa in opera delle strutture e degli impianti necessarie per un’ efficace produzione.
– questo contributo fa parte del Capitolo VIII del volume “Una provincia in Sicilia” a cura di Saverio Terranova – Bonanno Editore, Ottobre 2013.