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Caro Renzi, il “soccorso bianco” non basta

Matteo Renzi sembra curarsi poco della definizione di velocista, attribuitagli dai tanti oppositori (che nel suo Pd oltrepassano i confini delle due minoranze ufficiali e sono ben posizionati in punti nevralgici di commissioni parlamentari) per denigrarlo, non certo per apprezzarne le doti politiche. Quegli intrepidi, poco spiritosi e ancor meno leali, hanno già certificato la propria esistenza in vita in votazioni a scrutinio segreto alla camera. Giusto per fare capire al colto e all’inclita che loro possono fermare il governo della Leopolda quando vogliono e come vogliono, degradando il velocista a passista, come le corporazioni riunite comandano.

Renzi – s’è già visto nella prima settimana di fuochi artificiali carnascialeschi – confida nel soccorso bianco, dichiarato e palese, dei berlusconiani di Forza Italia e del Gal, ben sapendo che l’apporto di altri gruppi centristi al suo governo non è sufficiente a contrastare le forze congiunte dei franchi tiratori interni alla confederazione di partiti che è il Pd, sempre sull’orlo di una implosione. In effetti, essendo ricorso ad un impegno, ristretto ai primi sessanta giorni di esercizio della sua presidenza, per avviare, non propagandisticamente, il processo riformatore che è il segno stesso della sua esperienza politica concentrata nella quarta carica dello Stato, il segretario del Pd, che parlamentare non è e non sa quanto ciò pesi in un ordinamento costituzionale, soprattutto se da modificare radicalmente, non può permettersi d’essere frenato di continuo nelle scadenze che si è prefissate.

Non può insomma permettersi il lusso di giungere al voto europeo (e amministrativo a macchia di leopardo in Italia) del 25 maggio prossimo venturo senza avere approvato una prima, significativa parte dei suoi progetti qualificativi: la legge elettorale; quella sul lavoro; la riduzione del peso fiscale su imprese e cittadini; una riforma sostanziale del senato che metta giustamente in causa non solo l’intero Titolo V della costituzione, ma anche le norme relative all’autonomismo, alla funzione dei partiti, dei sindacati, dei movimenti cooperativisti; e, infine (ma non da ultimo), un radicale ridimensionamento della burocrazia pubblica, centrale e periferica.

Renzi, insomma, sa bene, che ogni giorno che si consuma in più sul piano parlamentare rispetto alla road map da lui stesso prefissata, costituisce un giorno in meno in termini di rinnovamento istituzionale. Con conseguente appesantimento della lunga quaresima che il suo governo dovrà affrontare con senso di responsabilità, alcuna leggerezza, meticolosa attenzione ai meccanismi parlamentari, rispetto massimo per le attese della gran massa dei cittadini che, in quaresima, si trovano almeno da tre anni, gestiti da primi ministri che avevano assunto il rigore come un mantra e risultato tutt’altro che risanatore, essendo stata l’Italia, proprio nei giorni scorsi, Renzi regnando, nuovamente declassata come potenza economica.

Perciò Renzi non può pensare di cavarsela con parole (come facevano i suoi predecessori) e annunci di riforme rimaste incompiute causa i frenatori interni al Pd. Ne è immaginabile, obbiettivamente, che il soccorso bianco possa sempre sopperire alle carenze traditrici delle opposizioni interne al suo partito. Il suo stesso destino – come premier, ma anche come segretario del maggiore partito della coalizione di governo – è legato a quei 60 (ormai già scesi a 50) giorni che si è autoassegnati non per sbruffoneria ma per intima convinzione di giovane capo che tiene a dimostrare capacità realizzative che le vecchie nomenclature, ora emarginate (ma sempre insidiose), non erano in condizione neppure di ipotizzare.

 



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