Nelle elezioni amministrative francesi non c’è stato soltanto il clamoroso successo dei candidati del fronte della destra di Marine Le Pen. Si è avuto un non proprio previsto tracollo dei socialisti del presidente Hollande. Il quale pensa di rimediare alla sonora sconfitta irrigidendo la politica del suo governo in senso più dirigista e statalista a due mesi dalle elezioni europee. L’esempio classico della sindrome di Stoccolma: quello che induce il prigioniero a schierarsi con le ragioni del carceriere, talvolta aguzzino.
L’esito elettorale francese è destinato a modificare corposamente il quadro politico d’Oltralpe. Per quanto non messo bene, lo schieramento centrista ha retto ottimamente; è meno esposto dei socialisti alla pressione lepinista; torna a contare qualcosa in Francia a ragione di una sua più accorta selezione delle candidature e con l’apparizione di signore più giovani e meglio dotate di appeal politico.
Non si può dire che, in Italia, la situazione si presenti in maniera analoga. Il grillismo, che rifiuta d’essere paragonato al lepenismo a ragione (non avendo alle spalle altra storia che il legame del settarismo di sinistra, antistituzionale e beffardamente padronale), potrebbe raccogliere più consensi in nome di una diffusissima protesta antieuropeista e antiburocratica che dilaga in tutti i 28 paesi dell’Unione. La sinistra, con la sua biforcazione fra estremismo alla greca e avventuroso facilismo renziano, pare avere per obbiettivo esclusivo la conquista di una egemonia socialdemocratica in nome del non popolarissimo Schulz. Il centro destra continua a non capire che la sua ulteriore disaggregazione potrà ulteriormente penalizzarlo: sul piano nazionale e su quello europeo.
In Francia è esploso un terzo elemento di grande rilevanza: l’alto astensionismo. L’Italia, da anni, ha nell’astensionismo il richiamo della maggioranza quasi assoluta degli elettori, in buona misura di estrazione moderata. Le lotte intestine fra i centristi non portano nuovi consensi; semmai ne allontanano altri ancora. E viene persino da chiedersi se, a muovere i capi di gruppi, gruppetti e gruppicini centristi, sia la razionalità o soltanto una sconfinata ambizione di persone prive di umiltà che confidano di possedere alte rendite di posizione, mentre rischiano, tutte, di perdere anche le residue simpatie dei propri familiari più prossimi.
Meno sono propositivi, più i gruppi centristi italiani continuano a disaggregarsi. Al centro di cotanta tendenza al suicidio collettivo c’è la presunzione (errata) che, essendo concluso il ventennale ciclo berlusconiano, è tempo di organizzare un nuovo contenitore convincente, più fresco, attraente e di sicuro affidamento popolare. Obbiettivamente, Berlusconi ha, invece, ancora carte da giocare e capacità aggregative che tutti gli altri gruppi centristi si sognano. Se non esistono le condizioni per un ritorno all’unità dei centristi in sede politica nazionale, si può convenire però che la prova alle porte è quella elettorale europea: che potrebbe essere sperimentata come occasione per verificare le condizioni, o no, di una collaborazione politica successiva.
L’imperativo categorico, comune, si suppone, a tutti i gruppi di centro e moderati, è battersi per un’Europa politica e meno dirigista sia sul piano istituzionale che nell’economia oggi sovrastante, invadente, burocratizzata. Muoversi in ordine sparso, disaggregati, ognuno pensando illusoriamente di sostituirsi alla forza attrattiva di Berlusconi (dato per moribondo politico), è la via più stupida alla sconfitta certa. Per avere un’Europa politica, che inverta il corso che s’è dato all’Unione negli ultimi anni (e che non risponde agli ideali europeistici propri dei padri fondatori), è indispensabile rafforzare il partito popolare europeo e, all’interno di questo, imporsi per invertire la lotta europea onde affermarvi lo spirito originario che è stato ultimamente alterato. Ciò significa che, chi ha cultura liberale, deve operare in maniera contraria al dirigismo socialdemocratico. La sola famiglia europea in grado di opporsi al dirigismo economico e politico della socialdemocrazia è il Ppe. Quindi, come opportunamente afferma il direttore Michele Arnese, «è giunta l’ora di una Casa unitaria di un moderno centrodestra popolare».
Il baricentro elettorale del centrodestra, ci ricorda con senso del reale Benedetto Ippolito, «è ancora Forza Italia». Che, oltre tutto, malgrado la Merkel, non è Junker (cui guarda con simpatia la maggioranza dei popolari europei), con calcolata freddezza ha appena concluso un vertice che ha provveduto a darsi un nuovo organigramma lucidamente motivato e non basato su bassi calcoli di bottega. Ha ragione Luca Volontè: è necessario – e urgente, aggiungo io – «un soggetto robusto di centrodestra popolare» e di una lista «inclusiva di Forza Italia». Che, non fingiamo di non saperlo, è il movimento che può trainare tutti gli altri gruppetti e gruppuscolini centristi verso il traguardo di una affermazione di un popolarismo non subordinato ad un’Europa coniata sull’euromarco.