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Dalla sinistra di ieri una lezione per la sinistra di oggi…

Esattamente cinquantadue anni fa, si apriva a Roma un convegno dell’Istituto Gramsci sulle nuove tendenze del capitalismo italiano. È rimasto negli annali storici della sinistra italiana. Forse per la prima volta, infatti, essa scoprì che c’era tutta una letteratura economica che non aveva mai avuto cittadinanza nella vulgata marxista del Pci.

Si provi ad immaginare lo stupore di un giovane comunista – quale io ero allora – di fronte alla relazione di Bruno Trentin, che spaziava dai teorici della “società manageriale” a Keynes e Schumpeter, da Berle e Means alla scuola delle relazioni industriali del Wisconsin, dall’istituzionalismo americano ai pianificatori francesi. La tesi di Trentin era che le forze più moderne della Dc avevano un progetto di modernizzazione del nostro Paese, basato sull’alleanza tra grande impresa e sindacato, con cui bisognava fare i conti.

Giorgio Amendola bollò come avveniristica questa analisi. Il compito del movimento operaio -ribadì seccamente – era quello di supplire alle carenze di una borghesia nazionale assenteista, lottando contro la rendita e l’arretratezza del Mezzogiorno.

Dopo oltre mezzo secolo, si può dire che Amendola non aveva torto quando affermava che il successo di quella lotta era legato a una sinistra unita in una prospettiva di governo. Si può anche dire, però, che Trentin aveva ragione quando sottolineava che la tesi di un capitalismo domestico “straccione” non reggeva alla prova dei fatti.

La proposta dell’unità tra Pci e Psi, precisata da Amendola nel 1964, fu immediatamente rigettata. Il confronto sulle trasfomazioni della società italiana, avviato da Trentin, fu frettolosamente chiuso.

La morale è che, nella vita politica, si può essere minoranza non solo quando si difende una linea sbagliata, ma anche quando si sostiene un’idea troppo lungimirante per poter essere compresa e accettata dalla maggioranza (di un partito o dell’opinione pubblica).



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