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Come fare davvero una seria spending review

Dopo la meritata attenzione strappata ad Angela Merkel dal premier Matteo Renzi nel corso dell’appena trascorso bilaterale tenutosi a Berlino, necessita trasformare i progetti annunciati in fatti. Meglio, in provvedimenti concreti da tradurre in autentiche riforme strutturali, del tipo quelle che servono al Paese per uscire dalla crisi e che sono pretese dai cittadini, dall’Unione Europea e dai mercati.

Insomma, sul piano teorico siamo alle solite. L’attuale governo, nella pratica, dovrà misurarsi con la differenza. Dovrà dimostrare di essere diverso da chi lo ha (da sempre) preceduto, così come ha fatto con la riforma elettorale, appena approvata alla Camera, da imporre al Senato, pena il ricorso allo scioglimento con gli identikit dei responsabili. Gli elettori dovranno fare il resto. Questo è quanto pretende la democrazia intelligente, per essere tale. Per dirla alla Renzi, gli stessi avranno l’onere di scegliere ciò che è meglio per i loro figli.

In relazione all’esercizio concreto di governo. Dovrà fare coincidere il dire con il fare, specie in un periodo nel quale quest’ultimo è stato abusato, nel senso che è stato speso, promesso e non realizzato. Al di là dell’annunciato “rinascimento industriale” e del Jobs act, che comunque costituiscono tappe fondamentali, occorre fare sul serio in termini di revisione della spesa pubblica. Al Paese e ai “paesani” necessitano riforme strutturali della spesa, sì da ottimizzarla a regime e non già una tantum.

Ciò che necessita è arrivare al livello preannunciato dalla Germania, ovverosia di eliminare il deficit dal vocabolario istituzionale. Un modo, questo, per impegnare la positiva perfomance del bilancio consolidato dello Stato a ripianare il debito pubblico altrimenti insostenibile. Non è, infatti, concepibile distorcere l’avanzo primario, nel senso di dedicarlo alla copertura degli oneri finanziari gravanti sul debito piuttosto che destinarlo ad investimenti produttivi ovvero ad una maggiore tutela dei diritti civili e sociali, cominciando rispettivamente ad “investirli”, tra l’altro, per una giustizia più efficiente, una migliore scuola e una assistenza socio-sanitaria uniforme e più efficace.

Per conseguire un tale risultato, gli strumenti più immediati sono la dismissione immobiliare e mobiliare – quest’ultima riferita alla moltitudine delle società partecipate che fanno buchi di bilancio ovunque – e la spending review. Il dilemma è quello di capire come realizzarle, ma soprattutto attrezzarsi del coraggio necessario.

Per intervenire correttamente necessita una nuova mentalità di governo da tradurre nell’auspicata differenza. Quest’ultima la si realizza solo modificando le aspettative di fondo della politica ma soprattutto i desiderata dell’elettorato. Non si può prescindere da un rivoluzionario cambio di marcia, consistente nel fatto che l’esercizio della politica debba essere effettuato da parte di chi ha la consapevolezza di non essere più eletto, tante sono le misure antipopolari da dovere adottare per salvare il Paese e la Nazione intera.

Ciò in quanto il nostro elettorato attivo è lo strumento di democrazia da nutrire culturalmente. Preferisce spendere meno e non pagare i costi del cambiamento in favore dei figli. Nel nostro Paese non vale la regola di unificare il Paese (che ha distinto la Germania nel processo di unificazione est-ovest) uniformando regole e prestazioni indispensabili per realizzare un insieme utile. Insomma, bisognerà imparare che  il migliore sindaco – intendendo per tale anche quello d’Italia – è quello che lavora per non essere più eletto.

Se non si dovesse arrivare a tutto questo avremo sempre di più riforme e cambiamenti promessi e non realizzati, decreti legge usciti super-omnibus dall’arena della conversione, leggi provvedimento per salvare (si fa per dire) le città vicine ai maggiorenti della politica. Su tutto i cittadini a pagare più di quanto fanno altrove e più di quanto devono in rapporto ai servizi resi loro esigibili.

Anche l’esperienza di questi giorni del DDL costituzionale, predisposto dal Governo, lascia molto a desiderare in relazione alla revisione del Titolo V. Non fosse altro per la scelta di eliminare tout court la legislazione concorrente, dimostrando di volere buttare il bambino insieme all’acqua sporca. Ciò senza contare che con la competenza legislativa esclusiva rimessa alle Regioni, in materie fondamentali per il vivere civile e l’esigibilità dei diritti sociali, creerà 21 repubbliche indipendenti nel decidere le sorti della collettività nazionale e nel mettere a rischio il bilancio consolidato dello Stato, da dovere esporre a livello comunitario.

Il tutto non si risolve prevedendo la mera facultas dello Stato di intervenire nelle “materie o funzioni non riservate alla legislazione esclusiva” al fine di tutelare l’unità giuridica ed economica della Repubblica. Con i “può” non si garantisce la certezza dei diritti. Occorrono i “deve” peraltro assistiti da sanzioni per gli enti territoriali inadempienti nei processi di erogazione dei servizi pubblici e garanzia dell’equilibrio economico complessivo.

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