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Divorziati risposati: dal card. Kasper una proposta umana, troppo umana

Il dibattito innescato dalla relazione – resa pubblica a livello mondiale grazie ad un meritorio scoop del Foglio – del card. Kasper in apertura dell’ultimo concistoro, non sarebbe stato così intenso se la posta in gioco non fosse alta. Inutile girarci intorno: se passasse la proposta formulata dal cardinale sui divorziati risposati, difficilmente si potrebbe continuare a parlare di rinnovamento nella tradizione, che sarebbe in linea con il vero spirito del Vaticano II, configurandosi piuttosto un rinnovamento della tradizione, con tutto ciò che ne consegue. E con buona pace dello stesso cardinale che, in un’intervista a Repubblica, si è premurato di dire che la sua proposta “non è contro la morale né contro la dottrina ma piuttosto a favore di un’applicazione realistica della dottrina alla situazione attuale.”. Detto altrimenti: “La dottrina non può essere cambiata. Tuttavia, a parte il fatto che esiste uno sviluppo della dottrina…occorre anche distinguere bene fra ciò che è dottrina e ciò che invece è disciplina”. Non abbiamo dubbi che il card. Kasper sia mosso dalle migliori intenzioni, e che abbia sinceramente a cuore la felicità delle persone. Resta però il fatto che, in primis, l’impossibilità per i divorziati risposati di accedere alla comunione – ciò che per il cardinale parrebbe essere il l’aspetto disciplinare – è parte integrante dell’aspetto dottrinale, che solo i sofismi di certo argomentare teologico possono separare; in secundis, la soluzione proposta rischia di essere ben peggiore del male che vorrebbe curare. Per non parlare del fatto che si creerebbe un precedente pericoloso anche per altre tematiche sui cui da tempo si registrano spinte, dentro e fuori la chiesa, per una maggiore apertura (si pensi, tanto per fare un esempio, a questioncine come aborto, contraccezione, ecc. ecc.). C’è tuttavia una questione preliminare su cui vale la pena soffermarsi, per certi aspetti più importante dell’oggetto stesso del rapporto Kasper. La questione concerne il metodo, o se vogliamo l’approccio utilizzato dal teologo tedesco. Questione, ripetiamo, non da poco conto perché ogni idea, tesi o discorso che dir si voglia, è diretta conseguenza del modo in cui uno affronta le questioni. Ridotto all’osso, il metodo Kasper (per altro comune a tanta teologia contemporanea) è questo: le chiacchere stanno a zero, è con la realtà che dobbiamo fare i conti. E la realtà dice che “tra la dottrina della chiesa sul matrimonio e sulla famiglia e le convinzioni vissute da molti cristiani si è creato un abisso”. Punto e capo. Ergo, se questa è la situazione, anziché domandarci il perché e il percome si sia arrivati a questo punto (un esercizio intellettuale magari interessante che però ha un piccolo limite: in concreto non serve a nulla, e dunque inutile perdere tempo), dobbiamo riflettere, interrogarci, scrutare i segni dei tempi per capire come colmare l’abisso, cioè come parlare all’uomo contemporaneo che dei comandamenti di santa romana chiesa sembra non sapere cosa farsene. Anche sulla scia di una ecclesiologia secondo la quale il cristiano, laico o ecclesiastico che sia, al pari di Cristo che, incarnandosi, è entrato nella realtà concreta degli uomini e con essa ha fatto i conti, è tenuto a sua volta a vivere nel mondo così come è e non come vorrebbe che fosse, l’approccio in questione si riassume nella semplice presa d’atto: le cose stanno così, inutile cincischiare se i tempi, il mondo e la società siano giusti o sbagliati. D’altra parte, cambierebbero forse le cose denunciando ogni due per tre che la situazione attuale – della famiglia e non solo – è figlia di un processo culturale, politico e sociale ben preciso, che è partito con l’Illuminismo e che nella seconda metà del secolo scorso, dal ’68 in poi, si è disvelato in tutta la sua pienezza e potenza mostrando le fattezze dell’Anticristo, magistralmente affrescato, e in epoca non sospetta, da gente come R.H. Benson e V.Solovev? Nossignore, non cambierebbe nulla, e anzi forse sarebbe peggio. E allora: cui prodest? Marito e moglie divorziano e si risposano? I fidanzati convivono e fanno sesso prima del matrimonio? La gente non va a messa? I giovani seguono la morale cattolica con lo stesso entusiasmo di un vegetariano di fronte ad una tagliata? I preti si spretano? I seminari sono sempre più vuoti? E la pillola? Non vorrai mica restare incinta? Signori, oggi il mondo è cambiato. Ed è con questo mondo che ci dobbiamo sporcare le mani. E se il problema, alla fine della fiera, è che la fede e la morale cattolica, in tutte le sue declinazioni, viene percepita dall’uomo di oggi come troppo pesante, il problema cari miei non è dell’uomo che ha perso la fede, o magari ha peccato di brutto, no; il problema è solo nostro, di noi chiesa; e allora rimbocchiamoci le maniche e vediamo di trovare il modo per renderla un po’ meno pesante, sta morale. D’altra parte, Cristo non è forse venuto a manifestare al mondo il volto misericordioso di Dio?

E’ chiaro che con questo assunto metodologico, che fa tutt’uno con un’ermeneutica del fatto cristiano all’insegna del primato della carità sulla verità, le conseguenze non potevano, non possono che essere quelle prospettate dal card. Kasper, che a mio avviso è andato ben oltre quanto gli aveva chiesto Papa Francesco. Oltretutto riproponendo tal quale, come ha notato Juan Josè Perez Soba, uno dei teologi più apprezzati da Giovanni Paolo II (non esattamente uno sprovveduto), la stessa posizione che sul tema dei divorziati risposati Kasper aveva formulato in un libro del 1978 (questo tanto per dire che il problema di cui si sta parlando non nasce certo ora, eppure pare curiosamente essere diventato “il” problema della chiesa), addirittura prima della Familiaris Consortio che è dell’83, e rigettata a suo tempo e in modo netto dalla Congregazione per la dottrina della fede guidata da un tale che si chiamava Joseph Ratzinger.

Volendo riassumere, il card. Kasper propone due soluzioni per altrettanti casi. Il primo caso riguarda quei divorziati risposati i quali ritengono, in coscienza, che il loro primo matrimonio non sia mai stato valido. Come tutti sanno, essendo il matrimonio un atto pubblico, per giudicare se esso sia valido o meno ci sono i tribunali ecclesiastici, tra cui il più noto la Rota romana. Ora Kasper dice: ok, però i tribunali mica li ha istituiti Nostro Signore, sono frutto di uno sviluppo storico; e poi, davvero “è possibile che si decida del bene e del male delle persone…solo sulla base di atti, vale a dire di carte, senza conoscere la persona e la sua situazione?” Maddai..Ecco allora che, sempre nell’ottica di privilegiare un approccio più pastorale e di mostrare il volto misericordioso di Dio, forse si potrebbe pensare di affidare tale valutazione, anziché ad un tribunale, ad un sacerdote esperto incaricato dal Vescovo. Chiaro no? Tu lasci tua moglie (o tuo marito, non fa differenza), divorzi e ti risposi. La comunione non puoi farla, però vorresti (vorresti? massì). Che fare? Semplice, vai dal prete che ti dice il Vescovo, e gli racconti la tua storia, che tu ti sei sposato in chiesa ma in realtà sei sempre stato poco o per nulla praticante, che le promesse di fedeltà ecc. vabbè, si sa come vanno ‘ste cose, e poi l’emozione del momento che ti fa sembrare di essere da un’altra parte..insomma, racconta che ti racconta il prete alla fine ti dà ragione. E il gioco è fatto. Libero come un fringuello. Poi fa niente se in chiesa continui a non andarci e dopo tre anni divorzi pure dalla seconda moglie. L’importante è che posso fare la comunione!!

Il secondo caso riguarda invece quei coniugi il cui matrimonio è valido, e che tuttavia hanno divorziato e si sono risposati (o tutti e due o uno solo). Anche per loro vi è l’impossibilità di accedere alla comunione. Qui Kasper, appellandosi ad una non meglio precisata prassi della chiesa antica, propone per questa situazione una soluzione in linea con quella che lui chiama la “pastorale della tolleranza, della clemenza e dell’indulgenza”, ovvero: accesso alla comunione previo un percorso di penitenza. Va da sé che questa proposta è, se possibile, assai più problematica della prima. E’ vero che Kasper, quasi a prevenire l’obiezione, dice subito dopo che “questa possibile via non sarebbe una soluzione generale…bensì lo stretto cammino della parte probabilmente più piccola dei divorziati risposati, sinceramente interessati ai sacramenti”. Sappiamo tutti però come vanno queste cose. Un fiocco di neve che ruzzola diventa facilmente una valanga. Ma poi, al di là degli aspetti per così dire statistici, qui il punto vero è che la proposta di Kasper implica di fatto l’accettazione del divorzio. Hai voglia a dire che la dottrina è salva, che il matrimonio continua ad essere indissolubile per cui se divorzi non ti puoi risposare pena il cadere nel peccato di adulterio, e che si tratta solo di una rivisitazione della disciplina. Ma scusate, se mi viene data la possibilità di fare un percorso penitenziale, e se al termine di questo percorso, appurato un mio sincero pentimento, posso fare di nuovo la comunione restando nel mio stato, ovvero essendo di nuovo sposato, questo non è ammettere il divorzio?? Non lo sarà de iure canonico, ma lo è di fatto, e tanto basta. Che si tratti di una soluzione “debole”, nel senso cioè che vorrebbe riconquistare l’uomo abbassando il vangelo alla sua misura, anziché elevare l’uomo al vangelo, è dimostrato oltretutto dalla dinamica stessa del processo. Logica vuole, infatti, che se uno si pente di un peccato commesso, e fa un’opportuna penitenza, poi quella persona cerca di ristabilire l’ordine delle cose infranto dal suo peccato. Voglio dire che nella dinamica del perdono c’è sempre un ritorno, a Dio innanzitutto, ma anche al prossimo. Allo stesso modo, se dopo un percorso penitenziale sono seriamente pentito del mio divorzio, ma voi pensate che resterei con la mia nuova compagna così a cuor leggero? O non tornerei di corsa da mia moglie, chiedendole perdono e provando in tutti modi a ricostruire un rapporto? Certo, non è detto che la cosa vada a buon fine, ma almeno ci proverei. Ed è  altrettanto vero che in questo modo ci andrebbe di mezzo una terza persona (e forse anche una quarta, se lo stesso percorso vien fatto dall’altro coniuge), che ovviamente soffrirebbe. Ma questo sarebbe indubbiamente il male minore rispetto alla possibilità che si ricostituisca l’originaria unione. E in ogni caso, la sofferenza della seconda moglie (o marito), sarebbe lo scotto da accettare come ulteriore penitenza. Perché è vero che i peccati si perdonano, ma le conseguenze restano. Nulla di tutto ciò, invece, nella proposta di Kasper. Il quale, preso atto che il primo matrimonio è finito, è disposto ad ammettere alla comunione l’uomo o la donna divorziati e risposati a patto che si pentano e facciano penitenza. Una proposta che, oltretutto, sembra non tenere conto del fatto che il pentimento e il perdono possono davvero fare nuove tutte le cose, e allora perché ciò non dovrebbe accadere anche per il primo matrimonio? Dio non è forse il Dio dell’impossibile?

Se davvero la chiesa vuole provare a colmare l’abisso che separa le convinzioni di molti uomini e donne del nostro tempo dalla dottrina su matrimonio e famiglia, non sarà certo con le soluzioni alla Kasper che si andrà lontano. La strada non può che essere quella di andare al cuore del problema. E il cuore del problema è la crisi di fede in atto nella società ormai da quasi mezzo secolo. Problema di cui, per altro, lo stesso Kasper pare essere consapevole, quando si chiede: “com’è la fede dei futuri sposi e dei coniugi?…Molte persone sono battezzate ma non evangelizzate. Detto in termini paradossali, sono catecumeni battezzati, se non addirittura pagani battezzati”. Ma se così stanno le cose, logica vorrebbe che la chiesa facesse ogni sforzo possibile per riaccendere la fiamma della fede nel cuore degli uomini, senza cercare soluzioni pastorali che all’insegna di una visione parziale della misericordia, confondono ciò che è il bene per i divorziati risposati con quello che l’opinione prevalente pensa o chiede sull’argomento. La tentazione di Aronne – dare al popolo ciò che il popolo chiede – è sempre alle porte; per questo in ogni generazione c’è bisogno di un Mosè che abbia il coraggio di dare al popolo ciò che Dio vuole. Le cause che possono portare al divorzio sono tante, lo sappiamo. Ma ce n’è una che prevale su tutte: l’incapacità di accettarsi e di volersi bene per quello che si è. E questo solo la fede lo può dare. Se non c’è la fede, e la capacità di perdonare che da essa discende e che ti fa ricominciare ogni volta come fosse il primo giorno, tutto diventa un fatto solo umano. E’ dalla fede che bisogna ripartire. Lo aveva messo a fuoco con lungimiranza profetica il beato (e prossimo santo) Giovanni Paolo II quando a metà degli anni’80, trent’anni fa, lanciò la nuova evangelizzazione, di cui oggi più che mai se ne sente il bisogno. In primis, dentro la chiesa. Dove è quanto mai necessario che torni a risuonare con forza il kerygma, l’annuncio della Buona Notizia – perché la fede, dice S. Paolo, viene dalla stoltezza della predicazione –  il fatto sconvolgente e inaudito che un uomo, proprio quel Gesù di Nazareth torturato e morto in croce come un malfattore, da morto che era è tornato in vita, per sempre. E che quindi la morte, per la paura della quale l’uomo è schiavo del peccato, è stata sconfitta una volta per tutte, e che si può sperimentare già fin d’ora la vita eterna. E forse non è un caso se proprio negli anni del Concilio sorgevano nuove comunità e movimenti, vere e proprie “chiese domestiche”, per dirla ancora con Kasper che nella sua relazione si è soffermato a lungo sulla metafora della famiglia come “chiesa domestica”, grazie ai quali molti uomini e donne hanno potuto sperimentare, toccare con mano a livello esistenziale la Buona Notizia e riscoprire la fede che avevano perduto, e dove altrettanti hanno incontrato Cristo per la prima volta. Quanti matrimoni ricostruiti, quante coppie salvate sull’orlo del divorzio o della separazione, quante famiglie aperte di nuovo alla vita! Esperienze serie di fede, dove le coppie, siano esse già formate o in procinto di farlo, ricevono un sostentamento spirituale costante – grazie all’ascolto della Parola, ai sacramenti, alla vita comune – che le accompagna tutta la vita. Nuove comunità e movimenti che, tra parentesi, sono stati in passato e sono tutt’ora oggetto di critiche proprio da chi meno te l’aspetti. Al punto che il refrain che spesso si sente – proveniente da quegli ambiti ecclesiali che non hanno mai digerito l’ecclesiologia del Vaticano II che ha parlato della chiesa come “popolo di Dio” e “corpo” di Cristo – è il seguente: sì d’accordo, i laici hanno puntellato e sostenuto la chiesa nel post-concilio, quando c’è stato lo sbandamento, ma ora il loro compito si è esaurito, ed è tempo che i preti si riapproprino del loro ruolo e riprendano in mano il timone della barca. Come se fosse tutta e soltanto, una questione di potere. Ma questa, come si dice, è un’altra storia.

In conclusione, per affrontare la questione dei divorziati risposati, e in generale il tema della famiglia, la chiesa ha già dove attingere, non c’è bisogno di inventarsi nulla né tanto meno di un Vaticano III. E’ vero, i tempi sono cambiati, e la chiesa deve stare al passo con i tempi. A patto però che questo non significhi adeguarsi allo spirito del tempo, né alle mode o alle tendenze del momento. Per un motivo molto semplice: perché anche se i tempi cambiano, il cuore dell’uomo resta lo stesso, ed è da esso che tutto nasce, come disse a chiare note tal Gesù di Nazareth: “Dal di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono i propositi di male: impurità, furti, omicidi, adultèri, avidità, malvagità, inganno, dissolutezza, invidia, calunnia, superbia, stoltezza. Tutte queste cose cattive vengono fuori dall’interno e rendono impuro l’uomo” (Mc 7,21-23). E dunque, è da lì che sempre bisogna ripartire, avendo ben presente che la missione della chiesa è quella di contribuire alla salvezza del mondo, non di farsi ben volere dal mondo.


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