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Donne, not in my name

Not in my name, viene da dire, anche se dispiace quasi un po’ usare l’espressione per un tema così poverello. Ma usiamola che rende l’idea: not in my name, non osate nemmeno farlo, il nome di donna mischiato agli intrighi di Palazzo su una legge elettorale del piffero. Io lo sono, donna, e me ne chiamo fuori.

Non coprite le magagne di un governo e della sua instabile maggioranza tirando in ballo la parità di genere, le quota rosa, la rappresentanza femminile. E non fatelo, beffa nella beffa, riempiendone i giornali dell‘8 di marzo, la festa della donna, il giorno in cui si festeggia regalando, a volte, mimose, e rimpiendosi la bocca di ‘stop alla violenza di genere’. E qui urge una parentesi: ma qualcuno sa spiegarmi cosa vuol dire? Perché nessuno parla della violenza sui bambini? Perché non della violenza sugli anziani? Ha più valore la violenza contro le donne, nella scala delle malvagità? Quanti punteggi ha?

Si perde un sacco di tempo, con messaggi di alti rappresentanti istituzionali, associazioni, giornalisti, tutti a riempirsi la bocca di quote, di festa, di violenza, e intanto un governo mostra le sue vere crepe e i suoi veri problemi, ma per oggi velati da questo gravissimo tema che non è un tema: votare con una legge elettorale che faccia candidare tante donne quanti uomini. Ma per favore, cari colleghe e colleghi giornalisti, anche voi, per carità: articoloni sulle quote, sul genere – che parola orrenda, poi – di sabato 8 marzo, è una mossa furba, furbissima.

Potevate scriverlo chiaro, sui titoli e negli articoli, e risparmiare inchiostro e carta preziosa: gli scorni legati a questa legge elettorale sono quelli della tenuta di un governo (il terzo) messo su per risolvere i problemi veri senza andare a votare. Il problema del 50 per cento di donne da inserire nei listini, tra i capilista, o tra i manager delle aziende di Stato non è un vero problema: è una tendina alzata per buttarla in caciara, culminata nel consiglio alle deputate di Forza Italia di appellarsi a Francesca Pascale perché interceda presso il fidanzato, cioè Silvio Berlusconi, per l’approvazione della norma.

E’ probabilmente vero che uno choc come le quote rosa imposte per legge possa dare risultati più velocemente di un cambiamento reale e naturale nella società. E’ ancora più vero se il sistema elettorale non avrà, come pare, le preferenze, ma i listini bloccati. Su questo dò ragione all’ex ministro Stefania Prestigiacomo. Però vi chiedo, parlamentari di destra e di sinistra, donne e uomini: siete riusciti a far diventare legge l’introduzione delle percentuali minime di donne nei consigli di amministrazione in società quotate, un’aberrazione di concetto e di fatto, che ora ci si industria pure a giustificare con snocciolamento di risultati economici migliorativi (statistici, economisti, professoroni, prendete i numeri e le penne e raccontateci la verità!). Giustamente la politica non pretende altrettanta aberrazione da se stessa: è andata a casa dei cittadini privati che fanno impresa, a imporre le sue leggi distorsive, ma nella propria, di casa, se ne guarda bene.

Il problema tutto interno della compattezza di voto tra i parlamentari nel Pd, le sorprese temute sul voto alla legge elettorale, la tenuta lunare di un patto tra partiti in teoria all’opposizione: questi sono i problemi da raccontare, indagare, e sviscerare. La parità di genere è una mimosa che si vuole usare per coprire malamente un’erbaccia pericolosa: la mancanza di volontà politica per il “cambiare verso”.

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