Pubblichiamo grazie all’autorizzazione di Class Editori, l’articolo di Tino Oldani uscito sul quotidiano Italia Oggi diretto da Pierluigi Magnaschi
L’affermazione in Francia del Front National di Marine Le Pen avvalora le previsioni che Riccardo Ruggeri va ripetendo da tempo su Italia Oggi: tra due mesi, quando si voterà per il Parlamento europeo, i partiti euroscettici e quelli anti-euro, tacciati sbrigativamente come «populisti», potrebbero raccogliere un’ondata di consensi più ampia di ogni previsione. E questo, secondo alcuni analisti, potrebbe avere, insieme alle inevitabili conseguenze negative (instabilità politica e Borse in calo), anche qualche effetto positivo, quanto meno un ripensamento della politica di austerità imposta finora dalla Germania della cancelliera Angela Merkel al resto d’Europa. Su quest’ultimo punto, penso che si tratti di ottimismo senza fondamento. Il motore propulsivo di questo ripensamento, come sarebbe logico in un contesto democratico, dovrebbe essere il Parlamento europeo. Ma se l’esperienza insegna qualcosa, proprio questa ipotesi è da escludere: pur essendo l’unica istituzione eletta direttamente dai cittadini europei, il Parlamento europeo non conta nulla. Un paradosso confermato da due fatti concreti.
PRIMO FATTO
Due anni fa, il 18 gennaio 2012, quando i capi di Stato e di governo dei Paesi della zona euro raggiunsero l’accordo sul Fiscal Compact (il Trattato europeo che ha imposto ai Paesi membri la severa politica di bilancio tuttora in vigore), il Parlamento europeo (766 deputati, che scenderanno a 751 con le elezioni del 25 maggio) votò a larghissima maggioranza una risoluzione che lo definiva «un Trattato inutile», in quanto le sue clausole erano già previste in altri documenti, come il Six-Pack e il Patto di stabilità. Ma di quel parere, espresso dai deputati eletti dai 28 Paesi dell’Ue, i veri poteri forti in Europa, vale a dire il governo di Berlino e la Commissione Ue che ne è fortemente condizionata, se ne infischiarono altamente.
SECONDO FATTO
Anzi, la Merkel e la Commissione Ue hanno potuto ignorare da quel giorno in poi qualsiasi risoluzione votata dal Parlamento di Strasburgo grazie a un secondo fatto, che era sfuggito ai più: tra le clausole del Fiscal Compact, ne era stata inserita una che stabiliva le regole per i «Vertici euro», da tenersi due volte ogni anno.
A questi Vertici partecipano «di diritto» i capi di Stato e di governo dei Paesi dell’eurozona, ai quali si aggiungono il presidente della Commisione Ue (anche lui «di diritto»), più il presidente della Banca centrale europea in qualità di «invitato». Quanto al presidente del Parlamento europeo, il testo definisce che «può essere invitato per essere ascoltato». Dunque, l’unico rappresentante dell’istituzione europea eletta direttamente dai popoli, può essere invitato giusto il tempo per essere sentito dagli altri membri del Vertice, ma nulla di più. Su tutte le problematiche che riguardano l’euro, la moneta comune, il suo parere è puramente consultivo, praticamente ininfluente. Ed è a causa di clausole come questa che il filosofo tedesco Jurgen Habermas, da sempre molto critico verso la politica della signora Merkel, parla di «Europa post-democratica», vale a dire di una realtà politica dove alcuni poteri forti, segnatamente la casta burocratica di Bruxelles, quella dei banchieri centrali e quella dei banchieri tout court, in stretta sintonia con il governo Merkel e con i governi dei Paesi del Nord Europa suoi alleati, hanno preso il posto dei Parlamenti nazionali e di quello europeo, esautorandoli in ogni decisione che conti, benché quei Parlamenti siano gli unici organismi europei eletti in modo democratico.
Il tutto, si badi bene, con un apparente rispetto delle forme, poiché tutti i Trattati europei sono stati approvati dai singoli Parlamenti nazionali, che evidentemente non li avevano letti con la dovuta attenzione. Senza andare tanto lontano, basta ricordare il caso dell’Italia, dove l’obbligo del bilancio statale in pareggio previsto dal Fiscal Compact (cioè «deficit zero», una restrizione più forte del 3 per cento introdotta a Maastricht nel 1991, a cui il premier Matteo Renzi continua a richiamarsi) è stato addirittura inserito nella Costituzione a tempo di record, con la doppia lettura di Camera e Senato in appena sette mesi, durante il governo di Mario Monti. Una clausola capestro, a cui si aggiunge l’obbligo di non superare ogni anno un deficit strutturale dello 0,5%, più l’obbligo di manovre annuali di rientro pari a un ventesimo della differenza tra il debito reale e quello ottimale del 60 per cento sul pil per i Paesi con un debito eccessivo, a partire dal 2015. In pratica, manovre da 45-50 miliardi l’anno per un Paese come l’Italia che ha un debito pari al 130 per cento del pil. Una vera follia, che se attuata precipiterebbe l’Italia nella miseria più nera.
STIPENDI DA NABABBI E SPRECHI
Anche per questo, man mano che elezioni europee si avvicinano, tutti i partiti (non solo quelli euroscettici e populisti) si dicono pronti a battersi per cambiare la politica europea. È già accaduto in passato, e non è mai cambiato nulla. Anzi, le cose sono addirittura peggiorate, mentre la casta degli euro-burocrati si è rafforzata sempre di più, ricoprendosi di privilegi che non hanno eguali al mondo. Il budget Ue supera i 150 miliardi di euro, di cui 8,5 miliardi per pagare stipendi da nababbi non solo ai parlamentari (19 mila euro al mese), ma anche ai 44 mila dipendenti dell’euro-burocrazia: 6mila euro netti al mese per un commesso, 9 mila per un archivista, fino ai 16 mila netti per i dirigenti, oltre a fringe benefit e sprechi di ogni tipo. Spese e sprechi in aumento ogni anno, mentre l’Ue chiede continui sacrifici ai Paesi dell’eurozona, imponendo tagli anche alle pensioni e alla sanità. Uno scialo scandaloso, sul quale dovremo ritornare.