Se Matteo Renzi ha più feeling con Maurizio Landini che con Susanna Camusso, una ragione c’è.
Lasciamo stare l’endorsement di quest’ultima per Pier Luigi Bersani prima, e per Gianni Cuperlo dopo (per lei, due flop clamorosi). La verità è che il premier e il segretario della Fiom sono entrambi nemici dichiarati della concertazione. Già contestata da Bettino Craxi (nel 1984) e da Silvio Berlusconi in nome della legittimità esclusiva del mandato popolare a governare, è stata messa in soffitta da Mario Monti. Rilanciata timidamente da Romano Prodi e da Enrico Letta, ora il “rottamatore” sembra seriamente intenzionato a intonare il suo De profundis. Il Jobs act verrà prima discusso e approvato nel Consiglio dei ministri, insomma, e solo successivamente le confederazioni dei lavoratori saranno consultate.
Non si tratta di una novità. Sembra invece nuova la determinazione con cui Renzi vuole abolire quel sistema di decisione trilaterale tra Stato, sindacati e associazioni imprenditoriali che – con alterne fortune e in forme diverse – ha segnato la storia italiana delle relazioni industriali negli ultimi trentacinque anni. Il gioco vale la candela?
Riflettiamo su un punto. Nelle società di massa, caratterizzate dalla presenza di realtà settoriali molto forti e istituzionalizzate, i voti vengono contati ma gli interessi vengono pesati. Ebbene, quando gli interessi organizzati riescono a far prevalere una norma decisionale (il consenso sociale) a scapito di un’altra norma decisionale (la regola maggioritaria), vengono alterate procedure fondamentali del processo democratico. La concertazione, cioè, introduce elementi di calcolo discrezionale del consenso e di contrattazione con minoranze privilegiate (ancorché ampie), che violano il basilare principio del “one man one vote and the most votes win” (una testa un voto, e vince chi ha più voti).
Alexis de Tocqueville pensava che tra associazionismo e democrazia ci fosse un circolo virtuoso. Ma non poteva immaginare che i grandi interessi organizzati potessero mettere a repentaglio l’equilibrio dei poteri nelle democrazie moderne. Non per caso il cosiddetto “modello neocorporativo” è stato messo in discussione perfino in quei Paesi nordeuropei che lo hanno sperimentato largamente e con successo.
Si può obiettare che in Italia la concertazione ha funzionato ed è stata utile nelle situazioni di emergenza nazionale, come quella della prima metà degli anni Novanta. Ma l’emergenza nazionale non può essere riproposta artificiosamente, magari per giustificare formule consociative con annesso esercizio di poteri di veto da parte dei sindacati. Probabilmente per i loro leader è difficile da digerire, ma se vogliono ancora contare qualcosa è meglio che tornino a fare il mestiere per cui sono nati.