Come capita spesso alle documentazioni storiche costruite per fini contingenti, i protagonisti rischiano d’essere presentati come attori di una fiction contemporanea, dimenticando invece le loro caratteristiche più marcate, il loro ruolo esercitato in maniera originale, le reazioni che produsse in campo nazionale e internazionale. Mi riferisco al film di Walter Veltroni, Quando c’era Berlinguer, una cui proiezione privata ha convocato tutti i pezzi da novanta e da settantacinque superstiti del vecchio Pci, li ha commossi, sollevando qualche protesta (come quella di Macaluso, che festeggia i suoi primi novant’anni alla grande: complimenti sinceri), e qualche ironia, tipo quella di Giampaolo Pansa su Libero.
LE FOTO DELLA PRIMA DEL FILM VELTRONIANO FIRMATE PIZZI
Enrico Berlinguer, in verità, non è stato un dirigente qualsiasi del partito fondato nel 1921 da Amadeo Bordiga, spodestato da Antonio Gramsci e Palmiro Togliatti (e anche da Girolamo Li Causi e da Luigi Longo). Come ironizzava astiosamente Gian Carlo Pajetta, Enrico Berlinguer «s’era iscritto giovanissimo alla direzione centrale del Pci» nella iniziale qualità di segretario nazionale della federazione giovanile comunista (Fgci). Quando nella memorialistica postcomunista si accenna alla Fgci, si fa riferimento a quella dei secondi anni Ottanta, allorché esplosero le legittime ambizioni dei D’Alema, dei Veltroni, degli Adornato: i quali consideravano il «loro» organismo quasi come un centro di addestramento per un altro Pci di cui si sarebbero contesa la leadership quanto prima.
Ma anche questi personaggi, oggi prestigiosi benché in declino nella nomenclatura postcomunista, o ignorano o glissano sulla circostanza che, molto prima di loro, al vertice della Fgci c’era stato un certo Enrico Berlinguer; che della gioventù comunista aveva fatto un centro d’irradiazione, d’indottrinamento e di conquista delle ultime leve che s’affacciavano alla politica nell’immediato secondo dopoguerra. Berlinguer qualificò la Fgci su due posizioni specifiche: 1) porsi alla testa di un fronte della gioventù che egemonizzasse la maggior parte possibile di movimenti politici, a cominciare dai cattolici e dai democristiani (che, dopo un brevissima disponibilità, si distaccarono dal fronte della gioventù in una Roma appena liberata); 2) lanciare col quindicinale Incontri Oggi, una mano tesa agli ex giovani fascisti (e, ancora, a quelli cattolici) perché, nelle more dei lavori conclusivi della assemblea costituente, tutti i giovani italiani (quelli che già votavano e gli altri che non avevano ancora l’età per farlo) si stringessero a corte e chiedessero ai padri costituenti una unitaria considerazione dei loro problemi: il pacifismo; il (finto) neutralismo; l’operaismo non disgiunto dalla considerazione per le masse rurali; il lavoro, a cominciare da quello da riservare ai giovani reduci senza arte né parte.
Su tale piattaforma Enrico Berlinguer creò una rete di capi locali che, col trascorrere degli anni e delle lotte sociali, entrarono via via nella classe dirigente reale del comunismo di Togliatti e degli altri anziani, mai rimuovibili. Quando Enrico Berlinguer divenne segretario generale del Pci, egli non era un quadro comunista formatosi nell’apparato, ma l’ex capo dei giovani comunisti che, con fedeltà ma anche con idee più fresche rispetto ai capi storici, avevano atteso almeno una parziale svolta generazionale, provocata dallo scoppio del Sessantotto mondiale e dagli stessi primi, corposi autonomismi dei comunismi dell’est europeo sovietizzato.
Berlinguer c’era, e fu decisivo, in una svolta tutt’altro che secondaria nella storia del Pci (e dei comunismi eurocentrali ed euroorientali), allorché in Cile il fronte popolare di Allende venne annientato dal golpe militare di Pinochet, vicenda ch’egli assunse come modello non solo da non imitare in alcun’altra parte del mondo, ma da rifiutare per l’Italia: per la sua ambiguità, il suo velleitarismo, la sua controproducenza.
Correva l’autunno 1974. I cattolici del no avevano contribuito a respingere il referendum antidivorzista che i radicali di Pannella consideravano l’antefatto del crollo definitivo dello scudocrociato. I socialisti e i liberali erano sulla stessa lunghezza d’onda e ritenevano di proporsi come alternanza di potere alla Dc alla testa di un fronte laicista. Berlinguer la pensava esattamente all’opposto. Non solo perché non intendeva prestarsi a fare del Pci l’intendenza per l’alternanza laicista; ma perché era convinto che, in un’Italia perennemente spaccata in due parti, un partito responsabile – quale lui considerava il Pci – dovesse accettare una volta per sempre, in palese rottura anche col proprio passato recente, una regola fin lì elusa: che, in democrazia, per proporsi come forza di governo, occorre disporre di una maggioranza reale di consensi popolari, non inferiore alla metà + 1 dei voti validi espressi liberamente dagli elettori.
Su tali presupposti, con una serie di articoli su Rinascita, creando scompiglio nel mondo comunista e in quello anticlericale, Berlinguer espose la sua teoria del compromesso storico: che non era concepito come una intesa di governo con la Dc che, al governo, c’era dal 1945 e, malgrado i recenti errori del segretario Fanfani, godeva sempre di un largo seguito popolare. Berlinguer pensava ad un mutamento culturale che, coinvolgendo tutto l’arco dei partiti costituzionali, preparasse le condizioni perché, in un futuro non remoto, non la sinistra ma un campo di forze popolari si trasformasse in perno di una alternativa di governo.
La Dc non accolse il compromesso storico di Berlinguer; ma neppure lo bocciò. Come invece fecero, preoccupatissimi, i radicalsocialisti, che pretendevano di egemonizzare il Pci. I democristiani – ed io fui l’estensore di un documento che Fanfani (cui fu preventivamente sottoposto) non accolse, ma che venne approvato con ferma convinzione da una riunione di quadri basisti e pubblicato come discorso a Milano di Albertino Marcora, vicesegretario della Dc – apprezzarono caldamente l’iniziativa di Berlinguer. Chiarendo che non consideravano l’analisi del segretario comunista come una manovra di corto respiro, valevole per mettere in moto una crisi ministeriale (presidente del consiglio era Aldo Moro), bensì quale modello democratico valido per il sistema italiano, paese non marginale nella alleanza democratica occidentale.
Il dubbio che sorge, dopo la programmazione del docufilm di Veltroni è che oggi, come allora, Berlinguer aveva i suoi principali (e non pochi) avversari dentro il Pci, oltre che a Mosca. E che il partito comunista fosse complessivamente restìo ad accettare autoriforme ideologiche, costituzionali, comportamentali. Il Pci discusse a lungo, al proprio interno e a vari livelli, del compromesso storico; ma non lo fece mai proprio. Come avrebbe dimostrato ciò che accadde nel 1976 e nel 1978, quando, contro il compromesso storico, si mobilitò la forza di fuoco delle brigate rosse, che incontrò non poca comprensione nell’area di autonomia, non estranea ad una militanza comunista.