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Il triste fardello della (im) previdenza pubblica

Se ci fosse una classifica dei guasti provocati dall’imprevidenza pubblica, la gestione della previdenza sarebbe la probabile capolista.

Che lo stato italiano sia stato imprevidente proprio laddove occorrevano saggezza e discernimento, da questo punto di vista, è la beffa più terribile del nostro ultimi quarantennio. Dissestare la previdenza, regalando pensioni baby e rendite retributive, è stata una scelta scelleratissima, pure se maturata in un contesto per noi ormai alieno – i primi terribili anni ’70 – che però è stata di volta in volta confermata pure nei non meno terribili anni ’90, quando pure arrivò la riforma contributiva, che però si fece imperfetta e incompleta per non menomare i cosiddetti diritti acquisiti, i cui titolari, manco a dirlo, erano gli stessi che avevano goduto fino ad allora dell’esorbitante privilegio previdenziale.

E neanche allora, nel ’95 quando arrivò la fatidica riforma Dini, si ebbe il coraggio di andare fino in fondo applicando il contributivo per tutti. Macché. Serviva un mezzo fallimento dello Stato per arrivare, con la riforma Fornero, alla scomparsa delle pensioni di anzianità e al contributivo secco.

Eccola qui l’imprevidenza pubblica: fare danni che per ignavia, ingordigia o mero calcolo elettorale, sono stati scaricati sulle generazioni future, alle quali però si chiede equità contributiva, allungamento dell’età pensionabile, contributi effettivamente versati per almeno un quarantennio. Dimentichi di quando bastavano vent’anni e pure meno, se si era dipendenti pubblici, per godersi una bella rendita previdenziale, bassa ma costante (e comunque assai più alta di quanto sarebbe con i parametri di oggi) a quarant’anni o anche prima, magari affiancandoci un bel lavoro in nero e l’affitto, sempre in nero, di una casa costruita abusivamente nel periodo in cui i tetti sorgevano nottetempo.

Ora, io non mi scandalizzerei più di tanto se gli italiani di quarant’anni fa avessero scelto questa deriva e fossero stati capaci allo stesso tempo di garantire tante comodità ai loro figli.

Solo che così non è stato. Ci hanno lasciato solo i debiti e un fardello previdenziale tristissimo da pagare con le nostre tasse che incattivisce e separa i vecchi dai giovani, anziché ricomporli nell’armonia sociale che pure dovrebbe esistere in un paese.

Per questo quando sento parlare di rischio di un conflitto generazionale da uno nato negli anni ’40 provo una certa irritazione.

Detto ciò, il fardello della (im)previdenza pubblica ce lo portiamo appresso e cresce ogni anno, come le malattie non curabili.

Per dimensionare il problema è utile scorrere il conto consolidato delle amministrazioni pubbliche sui primi tre trimestri del 2013. Qui leggo che “il conto degli Enti previdenziali al terzo trimestre 2013 ha registrato trasferimenti dalle Amministrazioni pubbliche per 74.197 milioni, a fronte dei 68.499 milioni del corrispondente periodo del 2012. All’incremento nei trasferimenti hanno contribuito la flessione delle riscossioni contributive per 578 milioni (-0,4%) e l’aumento dei pagamenti per prestazioni istituzionali per 5.196 milioni (+2,4%). Scendendo nel dettaglio degli enti, i trasferimenti dello Stato verso l’Inps sono risultati pari a 75.226 milioni, con un aumento di 5.370 milioni rispetto al corrispondente periodo del 2012″.

In aggiunta, vengo a sapere che “le prestazioni istituzionali dell’Inps hanno registrato un aumento complessivo del 2,3 per cento rispetto al corrispondente periodo del 2012, dato che incorpora una crescita di oltre il 14% della spesa per ammortizzatori sociali”.

Se andiamo a vedere la tabella scopriamo anche i dati del 2011, sempre relativi a i primi tre trimestri. Ebbene: i trasferimenti dallo Stato all’Inps per ripianare il deficit previdenziale era stati di circa 63,4 miliardi, 11 in meno rispetto al 2013. Questo a fronte di contributi incassati (il famoso cuneo previdenziale) per 158,7 miliardi che nel 2013 sono diventati 156,6. I pagamenti finali degli enti previdenziali (sempre considerando i primi tre trimestri, erano stati 223 miliardi nel 2011, a fronte di 232,7 nel 2013.

Detto in altre parole: il peso della (im)previdenza sociale cresce senza sosta e non pare potrà mai rallentare, atteso che ci sono sempre più anziani e sempre meno giovani.

Un altro modo per raccontarla è andarsi a prendere le tabelle Inps del 2001 e del 2011 (ultime disponibili) e confrontare alcune semplici voci.

Cominciamo dal totale delle pensioni erogate e il loro valore. Nel 2001 c’erano sul tavolo 16,453 milioni di pensioni che valevano (prezzi dell’epoca) oltre 182 miliardi. Nel 2011 i trattamenti totali erano 18,5 milioni e costavano 240,6 miliardi.

In dieci anni, è chiaro, aumenta il numero degli anziani, quindi non bisogna stupirsi. Se analizziano più in profondità i dati, però, qualche motivo di stupore lo troviamo.

Le pensioni da oltre 3000 lordi al mese nel 2001 erano in totale 269.175 e costavano allo Stato 5,9 miliardi (prezzi 2001). Nel 2011, la stessa classe di reddito contava 650.488 persone, per un costo complessivo di 34,5 miliardi (prezzi 2011).

Non mi sembra ozioso chiedersi quanti di questi pensionati, che hanno maturato il loro diritto nel decennio passato, abbiano potuto godere della graziosa eccezione prevista dalla riforma Dini, e quindi abbiano potuto calcolare una quota della loro pensione col generoso sistema retributivo. Lascio ad altri, di certo assai più bravi di me, esercitarsi in queste aritmetiche.

Un altro dato aggregato che fornisce interessanti spunti di riflessione è quello relativo alle classi d’età. Nel 2001 c’erano 638.420 pensionati di età compresa fra i 50 e i 54 anni che costavano alla previdenza pubblica 6,7 miliardi. Oltre a questi c’erano 1,404 milioni di pensionati di età compresa fra i 55 e i 59 anni che costavano 19,1 miliardi. Tutta gente che con le regole attuali sarebbe considerata popolazione attiva.

Per capire come mai tanta gente avesse una pensione così giovane, basta leggere il documento di analisi che accompagna le tabelle del 2001, dove c’è scritto che “l’incidenza dei pensionati di anzianità tra i beneficiari di una sola prestazione è pari al 24,3 per cento tra i pensionati ex dipendenti privati (Inps/Fpld + Inps/Altre gestioni), raggiunge il 27,2 per cento nel comparto dei lavoratori autonomi (Inps/Cdcm + Inps/Art + Inps/Comm) e sale al 41,0 per cento in corrispondenza degli ex dipendenti pubblici (Inpdap)”. Quindi, com’è ovvio che sia, è nel vecchio pubblico impiego che si annidano tanti baby pensionati. “I pensionati di anzianità dell’Inpdap ricevono redditi pari a 8.950 milioni di euro (22,3 per cento del totale di anzianità)”, specifica la nota.

Costoro, sottolinea ancora, a fronte di un importo medio lordo delle pensioni nazionali (dati 2001, ndr) di 13.262 euro registrano un importo medio lordo di 18.033 euro, il 136% della media. Sempre nel rapporto leggo che “per i pensionati di anzianità dell’Inpdap il numero di beneficiari in età inferiore a 50 anni è pari all’8,7%. All’interno di questa tipologia, consistente è anche il numero dei percettori appartenenti alla classe di età 50-54 anni (23,2 per cento), cosicché il peso degli individui titolari di pensioni di anzianità con età compresa tra 55 e 64 anni si riduce al 67,8 per cento del totale della tipologia, contro la quota dell’85,7 per cento registrata per l’insieme dei pensionati di anzianità della stessa età”.

Eccola qua, in cifre nude e crude l’incidenza dell’(im)previdenza pubblica, che può misurarsi nel grande privilegio concesso al mondo pubblico, che ha potuto godere di generose (retributive) rendite previdenziali ancora in giovane età.

Prima di rimproverarmi sottolineando che non parliamo di chissà quali cifre, vi prego di ricordare che un uomo o una donna in piena salute che possa avere una mini rendita media di 18.000 euro l’anno (prezzi 2001) a 50 anni difficilmente starà con le mani in mano o passerà la vecchiaia ai giardinetti. E soprattutto, come diceva Totò: è il totale che fa la somma.

Dieci anni dopo, quindi nel 2011, la classe 50-54 si è ristretta a 221.773 persone (costo 2,5 miliardi), quella dei 55-59 a 696.253 (costo 11,8 miliardi). I 50-54enni del 2001 sono finiti ovviamente nella classe 60-64enni, che infatti contava 2,589 milioni di persone per un costo di 46 miliardi, mentre quella dei 55-59enni è finita in quella dei 65-69enni che adesso conta 3,052 milioni di persone per un costo totale che supera i 46 miliardi e mezzo.

Vale la pena notare che questa classe è quella che costa di più, in valore assoluto rispetto alle altre. E non certo a caso. Un/a 60enne del 2011, nato/a quindi nel 1950 o giù di lì, dipendente pubblico a vent’anni, quando ancora il pubblico assumeva a go go, ha avuto tutto il tempo di andarsene in pensione prima che le riforme previdenziali sortissero i loro effetti, a cominciare dall’abrogazione del 1992 delle famigerate baby pensioni varate dal governo Rumor nel 1973. E negli anni ’50 gli italiani facevano ancora un sacco di figli.

Da allora sono successe tante cose e non voglio più annoiarvi. Rilevo solo che l’Inpdad è finito nel calderone Inps. E l’istituto nazionale di previdenza sociale ha accusato il colpo. I conti Inps, infatti, esibiscono uno squilibrio crescente, anche a causa del corposo disavanzo previdenziale importato proprio dall’ex Inpdap.

E sarebbe strano il contrario.

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