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Il virus della disaggregazione al centro

La grande bruttezza dell’arcipelago centrista è una malattia pestifera che viene da lontano, ha fatto molte vittime illustri, pare irrefrenabile e concorre alla decrescita della politica italiana con una rapidità impressionante. Il ceppo iniziale di tale virus, cui non si riesce a trovare antidoti efficaci, si chiama disaggregazione: e si è sviluppato in epoca proporzionalista ma – benché ciò appaia paradossale – si è propagato in epoca maggioritaria e bipolare. Cioè in una fase in cui, almeno in politica, si dovrebbe tendere a convergere piuttosto che a divergere pur volendo rispettare una realtà pluralista che non si cancella per decreto.

La disaggregazione investì, nel passato, vale a dire col ritorno in Italia della democrazia, particolarmente il mondo cattolico, pressoché unitario al tempo del fascismo e, malgrado la forte impronta democratica impressa da Alcide De Gasperi alla politica nazionale, coltivato persino ai vertici della Chiesa e da quei cardinali di curia che furono classificati dai politologi come partito romano. È pur vero che anche il mondo laico fu aggredito dal medesimo virus, pur in momenti in cui la forte pressione del comunismo mondiale richiedeva, anche dalle formazioni laiche, il massimo possibile di unità; e un minore esercizio di divisioni e distinzioni che l’elettorato medio non comprendeva e, conseguentemente, respingeva, privilegiando i più stabilmente forti. Beninteso, ciò accadeva anche in tempi in cui l’ideologismo provocava separatezze al limite della guerra civile.

Finché è rimasta in piedi la repubblica dei partiti, con tutta la sua carica di difetti strutturali e sovrastrutturali, la disaggregazione ha progredito per gradi, un po’ alla volta: sia a causa di un cattolicesimo politico non più solido come al tempo di De Gasperi e diventato sempre più clericale, moralista, giustizialista, insomma l’opposto della carità cristiana; sia a seguito dell’implosione del comunismo moscovita che, provocando di per sé la crisi degli ideologismi, liberava la società da quel pensiero unico che aveva dominato una parte consistente di popoli dell’Est europeo e dell’emisfero meridionale della Terra. Ma, proprio quando logica voleva che esplodesse in tutta la sua forza persuasiva la democrazia pluralista, si registrava, invece, in Italia l’esatto suo contrario: un passaggio di sistema che obbligava a scegliere «o di qua o di là», con una regressione che riportava al tempo degli esordi del fascismo primitivo e del liberalismo calante, che s’illuse di costituzionalizzare il mussolinismo.

Ora che la Prima Repubblica è archiviata (benché si ricorra ultimamente, agli albori della Terza, a strumenti di selezione della classe parlamentare e di governo tipo il mai sufficientemente deprecato manuale Cencelli) e che la Seconda è superata perché non più bipolare ma almeno tripolare, il buonsenso vorrebbe che almeno i centristi cercassero terapie urgenti per affrancarsi dalla disaggregazione. Offrendo alla comunità nazionale – sempre più critica, agitata, diffidente della politica praticata – proposte davvero rinnovatrici, tese alla pacificazione degli animi, al rispetto e alla tolleranza per le diversità, a convergere tra simili e a distinguersi verso tutto ciò che è incompatibile con una politica di centro, moderata ma riformatrice. Purtroppo anche il buonsenso pare scomparso nelle contrade centriste. E l’uomo della strada fa fatica a raccapezzarsi fra sigle e siglette dietro le quali finisce col ritrovare solo singole persone dall’ambizione smisurata e dalla proposità quasi nulla. Sicché preferisce rifugiarsi nell’astensione, benché sia consapevole che, disinteressandosi delle diatribe fra disaggregati cronici, rischia di favorire quanti, la democrazia, non hanno la più lontana idea cosa sia e quali doveri (e non solo diritti) comporti.

 



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