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La Grande Bellezza, a dispetto della sinistra accattona

Questa ressa della sinistra accattona, caciaresca, al cachemire e statalista ad intestarsi il successo de La Grande Bellezza di Sorrentino, è, al contempo, puerile e oltraggioso. Il vizietto di mettere le mani sul e dentro il cinema, e a parlare di cinema di Stato, è di antica data. A cominciare fu Benito Mussolini, che diede vita a Cinecittà e alla Mostra di Venezia.

Affidando ad Alessandro Pavolini, l’ultima raffica di Salò, il lavoro d’immagine (con l’amica del cuore Doris Duranti e la coppia fissa dei fidanzatini d’Italia Osvaldo Valenti e Luisa Ferida) e quello sporco dei finanziamenti privati manovrati dagli uomini del regime. A tale ambaradam si sostituì, pari pari, quello degli ex fascisti passati in massa nel Pci postliberazione. Colle loro fisime sul cinema impegnato, l’adorazione della corazzata Potëmkin, il maneggio del danaro pubblico, prima soltanto connesso al ministero dello spettacolo, di seguito rafforzato da quello delle regioni a regime rosso.

Ma sostenere, com’è accaduto a Porta a Porta per bocca di un collaboratore strettissimo di Matteo Renzi, che La Grande Bellezza è la dimostrazione che il sistema pubblico può servire a recuperare la credibilità internazionale dell’Italia, di quella di questo momento, è francamente uno sproposito. Perché, non soltanto per il caso specifico, il costo industriale del film, pari a 9 milioni e 200 mila euro, è stato così ripartito: 3 milioni e 700 mila euro, diventati 5 milioni e 500 mila euro con le spese di lancio e di copie, sono stati coperti da Medusa, controllata da Mediaset, cioè da Silvio e Pier Silvio Berlusconi; 2 milioni sono stati investiti (sotto forma di tax-credit) da due soggetti privati come Banca Popolare di Vicenza e Biscottificio di Verona; 650 mila euro sono pervenuti dal Programma Media e il supporto di Eurimoges; 1,1 milioni di euro (ma non a fondo perduto) li ha messi il ministero dei beni culturali; un modesto sostegno l’ha aggiunto Lazio Film Commission.

Tutto ciò per contraddire quanti continuano a cedere a quel vizietto spendaccione ancora largamente coltivato dalla variegata fauna di autori, registi, sceneggiatori, truccatori, maestranze diverse. Per il semplice motivo che, dal 1946 in avanti, hanno provveduto a produrre vero cinema italiano non i sovietisti ma personalità come Angelo Rizzoli, Cecchi-Gori padre e figlio, Fulvio Lucisano, Alfredo Bini, Franco Cristaldi, Carlo Rossella, Giampaolo Letta, Silvio e Pier Silvio Berlusconi. Altro che cinema di Stato o cinema assistito, pena la decadenza. Anzi, a dirla tutta, è proprio l’assistenzialismo, non sempre micragnoso, coniugato con un ideologismo sinistro e livellatore di coscienze e di cultura, che ha impedito al cinema italiano di ottenere riconoscimenti internazionali se non ad ogni morte di papa, cioè ad intervalli irregolari. Di solito procurando bile violenta ai francesi con la puzza al naso, come i redattori de Le Monde.

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