Non so se abbia ragione Stelio Solinas a definire “La Grande Bellezza” un film reazionario, né voglio impancarmi a critico cinematografico o sapiente analista dei flussi sociologici e culturali che attraversano il mio Paese. Ho vissuto questo Oscar con la soddisfazione dell’italiano medio, quello che è contento quando l’Italia è avanti. Una soddisfazione che non è del tutto separabile da qualche inquietudine, legata alle probabili ragioni per cui, quindici anni dopo Benigni, Paolo Sorrentino ha conquistato i giurati degli Academy Awards.
Sorrentino sa far cinema, è fuor di dubbio; Toni Servillo è attore monstre, pacifico; la Roma magnificente e delabré che viene messa in mostra nel suo film ha un fascino struggente e grandioso senza pari; tuttavia Gep Gambardella e la banda di nullafacenti insulsi con cui trascorre le sue giornate insensate sembrano fatti apposta per compiacere i diffusi stereotipi sugli italiani, così terribilmente raffinati e parassitari, cinici ed appassiti compagni del sublime, peraltro anch’esso perituro e cadente.
Il compiacimento che accompagna il film è in qualche modo parallelo al periclitare dei muri di Pompei, al senso di cacciata e di grazia perduta con cui sembriamo mostrati all’occhio del mondo e al nostro stesso. Un popolo con un grande avvenire alle sue spalle, di cui il meglio si trova sotto terra o sta per arrivarvi. Non è un caso che Sanremo sia stato un gigantesco funeral party, che il Ventennio di cui parla Gianfranco Fini, vissuto a destra nel segno del provvidenziale e venefico carisma di Silvio Berlusconi, abbia avuto la sua gamba sinistra nel veltronismo, negli album delle figurine Panini, del revivalismo minimalista.
Io non credo che l’Italia sia questo; men che meno credo che a questo sia condannato. La Grande Bellezza che serve alla politica è il contrario del rifugiarsi nelle colonne di un tempio diruto: è andar per mare, alla ricerca di nuove terre e nuovi orizzonti, “per seguire vertute e canoscenza”.
È per questo che mi lasciano molto perplesso alcuni atti e manifestazioni compiuti dagli amici di Fratelli d’Italia. Ora, è chiaro (mode “goliardia” on) che basta vedere anche di sfuggita Giorgia Meloni, Ignazio La Russa e Guido Crosetto in tv per capire che di Grande Bellezza non è proprio il caso di parlare; ed anche l’invenzione delle “singolarie”, le primarie con unico candidato non sembrano una trovata di straordinaria genialità, anche se si trattava forse dell’unico sistema per fare in modo che il numero dei votanti fosse superiore a quello dei votandi.
Però (mode “goliardia” off) sono soprattutto i contenuti ad inquietarmi: abbiamo attraversato il deserto, superato la conventio ad excludendum, mandato i nostri uomini e le nostre idee al governo del Paese, di Regioni, di grandi città per ritrovarci a fare il giochino degli antisistema? Davvero? Trent’anni dopo Almirante? E senza avere Almirante? Alla fonda in un porto identitario dove intercettare, caso mai, qualche briciola o avanzo del tavolo grillino?
Preferirei vedere da parte di una classe dirigente, in cui per anni in tanti ci siamo riconosciuti, un atteggiamento di segno opposto. Una chiamata alla responsabilità, un’ammissione corale dei gravi errori commessi congiunta ad una costruttiva capacità di analisi e rilancio dell’azione politica da destra. Siamo in tanti ad attendere la fine delle laceranti ostilità e l’inizio del doveroso dibattito capace di scrivere un nuovo copione per la destra del futuro. Perché siamo certi di possedere grandi attori e fantasiosi registi per concorrere e vincere l’Oscar che ci spetta. Basta solo volerlo