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La Russia tra referendum e storie personali

Fedor era un ingegnere dei trasporti nella Russia zarista. Aveva partecipato alla costruzione della Linea Transiberiana. Fedor possedeva un appartamento con sette stanze a Mosca. Con tanto di servitù. Aveva una biblioteca bellissima e fornitissima. Tutti i classici, molti di quei volumi che, di lì a poco, sarebbero stati banditi. Nel 1898 sua moglie Lena gli diede il primo figlio Siebel.
Nel ’17, Siebel, che stava per iscriversi all’università, giovane istruito e che si era abbeverato alla biblioteca paterna, fu chiamato ad arruolarsi nell’Armata Bianca. Combatté sul fronte meridionale. Rimase ferito. Soffrì la fame e le terribili sofferenze degli inverni di guerra. Della guerra civile. Quando tutto finì, non gli fu consentito fare ritorno a casa. Nella sua Mosca.
Il padre era morto e la casa, con la stupenda biblioteca, gli era stata portata via. La madre e la sorella minore vivevano in modesto alloggio nella periferia di Mosca.
Riparò in Polonia. Prese moglie ed ebbe due figlie. Intraprese gli studi in Filologia e provò continuamente a tornare in Russia. Ma il suo nominativo era schedato. Era sotto controllo, era considerato una spia anche se viaggiava con una giovane moglie e due figlie piccole al seguito. Si spostò sul Volga e prese casa a Engels, un piccolo centro. Di là dal fiume, nella più grande città di Saratov, avrebbe trovato lavoro presso l’Università. Faceva il pendolare, tutti i giorni. Da Engels, a seconda delle stagioni, attraversava il Volga con un diverso mezzo di trasporto per raggiungere il suo posto di lavoro. Non esisteva un ponte. D’inverno si passava sopra al fiume ghiacciato. D’estate, con improbabili piroghe, a patto di lasciare la tassa di passaggio ai Flegias che tiravano a campare vivendo di quello. I periodi più brutti erano le mezze stagioni. Perché lo strato di ghiaccio era così sottile da rendere pericolosi sia gli attraversamenti a piedi o su gomma sia quelli con i battelli. Ogni giorno, un’avventura. D’inverno, a volte, era costretto a dormire sulle panche del rettorato perché quando la temperatura arrivava a -50 °C, e vi arrivava, e i venti del Pacifico erano così veementi e gravidi di umidità da arrivare sin da quelle parti, non riuscivi a vedere nulla. Dalla finestra ti sembrava di guardare attraverso un bicchiere d’aspirina. Il tratto di strada tra Engels e il fiume era in mezzo a una boscaglia piena di insidie. I lupi.
Quando alla sera Siebel non faceva ritorno a casa, non potendo avvisare la sua famiglia, le sue tre donne si stringevano forte tra di loro. E la piccolina, con il cinismo ingenuo proprio di quella età, come se volesse rincuorare la madre le diceva: – Non preoccuparti mamma, papà o è finito nel fiume o se lo sono mangiato i lupi – .
Siebel sopravvisse ai lupi e ai quotidiani attraversamenti del Volga. E ogni anno faceva domanda per poter tornare a Mosca. Gli fu sempre negata. Anche quando, dopo aver ricevuto la notizia che la madre, che non vedeva da quando si era arruolato, stava per morire, con le lacrime agli occhi, tornò all’ufficio di polizia a Saratov a prostrarsi di fronte al funzionario. Chiese di poter andare a Mosca scortato. Che si sarebbe limitato a un unico abbraccio alla madre sul letto di morte e sarebbe ritornato indietro. Niente, non gli fu concesso.
La sorella, molti anni dopo, sulla lapide al cimitero di Mosca, gli raccontò che in quegli ultimi giorni ogni volta che entrava un uomo dalla porta la mamma non faceva che urlare il suo nome. Siebel.



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