In questo articolo voglio riproporre una riflessione di Elisabetta Gualmini e Roberto Rizza, comparsa su Stato e Mercato, n.92, agosto 2011. In questo articolo gli autori analizzano gli strumenti di “attivazione, occupabilità e nuovi orientamenti nelle politiche del lavoro” paragonando il caso italiano con quello tedesco.
Gli autori affermano che “sia in Italia che in Germania l’introduzione di politiche per la flessibilità ha risposto all’obiettivo di aumentare il tasso di occupazione” (p.197) ed aggiungo io che, come ha dimostrato la storia recente, è stato completamente trascurato l’aspetto qualitativo della questione: incrementare le statistiche dimenticando che dietro a queste “assunzioni precarie” si trovano persone in carne ed ossa.
La ratio delle scelte prese dai vari governi tedeschi (socialdemocratici e cristiano democratici) è stata quella per cui “il modo migliore per incentivare la domanda da parte delle imprese e quindi incoraggiare l’ingresso nel mercato del lavoro fosse quello di ridurre il costo del lavoro attraverso l’introduzione di contratti di impiego non-standard, che presentano il duplice vantaggio per le imprese di prevedere un minore carico fiscale e di andare incontro alle esigenze di flessibilità della produzione” (p.198).
Questa logica è stata più o meno la stessa in Italia, con le riforme apportate sia dal Governo Prodi che dal Governo Berlusconi, rispettivamente con la Legge 196/1997, detta Pacchetto Treu e la c.d. Legge Biagi, o Legge 30/2003.
Gli interventi presi dalla Germania hanno avuto come obiettivo 1) la riduzione del costo del lavoro con l’introduzione dei Mini-Job e dei Midi-Job e l’avvio di un programma denominato Ich-AG; 2) incentivare il lavoro temporaneo e di introdurre meccanismi di semplificazione delle procedure di licenziamento.
Un altro intervento ha riguardato la possibilità di facilitare i licenziamenti per imprese che hanno fino a 10 dipendenti. Questa riforma è attiva dal 2004.
Quello che è stato fatto in Germania, però, è stato anche riformare in modo radicale il sistema di sussidi e contrasto alla disoccupazione. Su questo aspetto, invece, l’Italia è rimasta molto indietro.
Le riforme Harzt hanno trasformato radicalmente il sistema dei sussidi: prima di queste riforme esisteva, infatti, un “modello di indennità ai disoccupati basato sulla presenza di sussidi assicurativi e assistenziali” e le risorse erano reperite “da un fondo cui contribuivano datori di lavoro e lavoratori dipendenti, pagato per 6 fino a 32 mesi e ammontante al 60% fino al 67% dell’ultimo salario netto, per un massimo di 4250 euro al mese” (p.202).
Oggi esiste una semplificazione che prevede un sussidio di disoccupazione “tarato sull’entità dell’ultimo salario percepito prima del licenziamento” (p.202) chiamato “Arbeitlosengeld I” che è limitato a un massimo di 12 mesi per tutti e di 18 mesi per gli over 55. Se oltre questo limite il soggetto non ha trovato un’occupazione passa automaticamente nel programma “Arbeitlosengeld II” che è calibrato 1) sulla prova dei mezzi, 2) trasferimento monetario fissato a quello della precedente assistenza sociale, indipendentemente dall’ultimo salario percepito.
Questo sistema penalizza, di fatto, colo che percepivano elevati stipendi e elevate indennità.
C’è un’ulteriore modifica apportata al sistema tedesco: “se i disoccupati sono senza lavoro da più di un anno e dunque beneficiano del nuovo sussidio di disoccupazione Arbeitlosengeld II, sono obbligati ad accettare un lavoro senza riguardo al livello della remunerazione, a patto che essa rispetti i principi di legalità” (p.203), si parla del “lavoro accettabile”.
Adesso quindi veniamo al caso italiano. Scrivono gli autori che l’Italia è un’eccezione nel panorama europeo, infatti, “non è mai stato introdotto alcun tipo di sussidio per coloro che non hanno mai lavorato o che non hanno una storia contributiva sufficientemente lunga e continuativa” (p.203) inoltre la cassa integrazione “copre soltanto 1/3 degli occupati, lasciando fuori i lavoratori autonomi, atipici e le imprese sotto ai 15 dipendenti”.
L’Italia è molto indietro da questo punto di vista, gli autori non mancano certo di mettere in evidenza il meccanismo perverso generato in Germania da questo sistema, ossia la crescita dei “working poor“, tuttavia a fronte di una flessibilità e di un reddito più basso sono state predisposte misure di sostegno per contrastare la povertà e l’esclusione sociale.
In Italia invece? Credo sia opportuno, proprio partendo dal caso tedesco, analizzare i lati positivi e negativi di questa esperienza ormai decennale e cercare di non acuire il divario tra ricchi e poveri, nel non penalizzare ulteriormente le categorie a rischio esclusione (donne e giovani) e di non creare una nuova tipologia di lavoratori precari.
Le proposte che dovranno essere discusse a breve toccheranno la questione del “reddito di cittadinanza”, ma introdurre questa misura di per sé non è sufficiente. Occorre considerare prima gli effetti positivi (ci vogliono stime accurate, non spot!) e anche quelli negativi ( i costi su chi un lavoro lo ha e soprattutto, stimare il rischio di atteggiamenti da free rider). Il sistema tedesco ha retto bene fino ad oggi, ma anche in Germania c’è una discussione vivace su questo sistema. L’Italia non deve partire ora, di corsa, con una proposta traballante e incerta: dobbiamo valutare bene e attentamente ogni aspetto positivo e negativo di questi interventi, prevedere meccanismi di tutela ai lavoratori a basso reddito ( i nostri working poor, e sono tanti) e cercare di creare un sistema equilibrato tra richieste delle imprese e diritti dei lavoratori.
Ricordiamoci sempre che ci sono diritti e doveri, obblighi e restituzioni da tutte le parti.