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L’Egitto in cerca di energia solletica gli appetiti commerciali

Lo scorso dicembre il gruppo British Gas (BG) lanciò l’allarme: la “deviazione” della produzione di gas dal Delta del Nilo verso il mercato egiziano interno, affamato di energia, avrebbe portato al rischio di interruzione delle esportazioni di gas liquefatto dal terminal di Idku, a 50 km a est di Alessandria. BG non è solo uno degli operatori del terminal ELNG (Egyptian liquefied natural gas), ma uno dei maggiori operatori esteri nel Paese, con uno stock di 11 miliardi di dollari investiti; dal 1995 ha la concessione West Delta Deep Marine (Wddm) a largo di Alessandria, che gestisce insieme alla malesiana Petronas. Inoltre il fatto non è privo di conseguenze per noi, visto che gli accordi Egitto-BG del 2003 stabilivano che la quota export (oggi stornata per usi domestici) fosse destinata ai mercati di Stati Uniti ed Italia.

LEVANTE AMARO PER GLI INGLESI
British Gas è impegnata da quindici anni in un’altra delicata partita politico-energetica nel Mar di Levante, dall’esito ancora tutto aperto: la gestione della concessione a largo della Striscia di Gaza. Ottenuta nel 1999 direttamente dall’Autorità Palestinese, la licenza, della durata di 25 anni (scade dunque nel 2024) ha portato BG alla scoperta dei giacimenti Gaza Marine 1 e Gaza Marine 2 che secondo alcune stime produrrebbero 30 miliardi di metri cubi di gas, con ricavi tra i 6 e i 7 miliardi di dollari l’anno. Lo scoppio della Seconda Intifada e il rifiuto israeliano di “finanziare il terrorismo” attraverso l’acquisto di gas (nella governance del giacimento è presente infatti, oltre a BG, anche il fondo dell’autorità palestinese) hanno portato ad uno stallo nello sviluppo del progetto, fino alla chiusura degli uffici di BG in Israele nel 2008. Secondo alcune ricostruzioni, l’offensiva israeliana a Gaza alla fine di quell’anno sarebbe da collegare a pressioni commerciali indirette per costringere Londra a parlare direttamente con Tel Aviv scavalcando l’Autorità Nazionale Palestinese, già svuotata dall’ascesa di Hamas a Gaza. Al netto di una certa dietrologia “anti-sionista”, l’ipotesi non sembra peregrina: lo testimonia l’impegno diretto di Tony Blair per integrare i sistemi economici ed energetici di Palestina ed Israele, il riavvio delle trattative dirette tra Israel Electric Company (IEC) e BG e un certo ridimensionamento dei toni anti-israeliani nella stampa britannica, fortissimi nei primi anni del 2000, a ridosso dell’accordo ANP-BG che scavalcava Israele.

AVANZANO I SIGNORI DEL GAS DI MOSCA
Nello stallo delle trattative triangolari Israele-Palestina-Gran Bretagna, la Russia si è presentata al tavolo all’inizio dell’anno con un’offerta invitante: 1 miliardo di dollari per sviluppare i giacimenti al largo di Gaza. Potrebbe essere solo una provocazione, ma segnala quanto i signori del gas russo siano pronti a spingersi nei mari caldi e nei territori di caccia tradizionali dei petrolieri arabi ed occidentali. D’altronde, Lukoil ha dimostrato grande abilità nell’inserirsi anche in un terreno difficile come l’Empty Quarter, la “scatola di sabbia” del deserto saudita Rub Al-Khali, dove già nel 2007 ottenne una licenza per trovare gas, e dove, dopo tentativi infruttuosi, sarebbe in trattativa per individuare “tight gas” (gas non convenzionale), ovviamente – sottolineano con opportunità le fonti saudite – ad altre condizioni contrattuali.

…E QUELLI INDIANI
Non solo in Arabia Saudita, la carta russa viene giocata con grande disinvoltura di questi tempi in Medio Oriente. Per esempio, dopo la rottura delle trattative con il gruppo norvegese Hoegh per la costruzione di un terminal LNG flottante, il ministro degli investimenti e dell’industria egiziano è corso a Mosca, promettendo di esplorare l’acquisizione di gas liquefatto dalla Russia. Apparentemente si tratta di una provocazione (basti pensare che l’unico terminal russo, di Gazprom-Shell-Mitsui-Mitsubishi, si trova sulla lontanissima Sakhalin Isola sul Pacifico), forse per sottolineare le defaillance anglo-americane ed occidentali nel garantire l’import necessario ad un Paese in grave deficit energetico. Tuttavia, se si considera che lo scorso settembre ha cominciato a dare frutti il giacimento North West Kilala (NKW) nell’ambito della licenza Disouq, e che tale licenza è gestita da RWE DEA, passata nelle mani del veicolo di investimento Letter One di Mikhail Friedman e di Jonhatan Muir (imprenditore inglese ed ex CFO della defunta JV anglorussa TNK-BP), la presenza russa non appare così platonica. Anche l’India si presenta rafforzata. Il volume di scambi con l’Egitto è passato dai 2,89 miliardi di dollari pre-rivoluzione (25 gennaio 2011) ai 5,5 miliardi del 2013, e la posizione è destinata a rafforzarsi specie nel campo chimico-tessile. In passato i colossi pubblici del gas indiano hanno esplorato il mercato egiziano e GAIL (Gas Authority of India) ha perfino stabilito joint-venture nel mercato distributivo domestico.

IL NODO GEOPOLITICO DELL’IMPORT ENERGETICO EGIZIANO
Quello dell’emergenza energetica egiziana è tema politicamente sensibile perché tra le cause economiche del colpo di mano militare di luglio c’è anche il fallimento del governo Morsi nelle trattative per aprire con urgenza infrastrutture di import di gas liquefatto. Su tutto il processo di ascesa egiziana incombe, infatti, il “generale estate” con i picchi di consumi relativi all’aria condizionata, irrinunciabile nella canicola estiva. E di fronte al rischio di un Paese in preda a black out nei mesi caldi, la diplomazia energetica del Cairo si starebbe muovendo perfino in direzione di Israele (nonostante quest’ultima prospetti un prezzo 4 volte superiore a quello offerto da egiziani ad israeliani in passato). Dal 1997 in poi la rete di distribuzione del gas egiziano è cresciuta di 6 volte, raggiungendo a fine 2012 i 205 milioni di metri cubi, un ampliamento che tuttavia appare insufficiente di fronte all’esplosione dei consumi e all’assenza di alternative energetiche (come il solare). Un trend di sotto-investimento che, secondo gli esperti, ha cominciato ad intaccare la stessa tenuta del regime di Mubarak a partire dal 2007. Con tutto ciò, il Paese resta un componente chiave della dinamica economica mediterranea. Secondo il “Trade Forecast Report” di marzo della banca britannica HSBC, l’Egitto è destinato ad una modesta ripresa con buone opportunità di business. HSBC valuta che il forte afflusso di capitali stranieri, in particolare di provenienza del Golfo, rappresenti un volano di ripresa, capace di controbilanciare nel breve-medio periodo gli insufficienti investimenti domestici in alte tecnologie (incluso quelle relative alla green energy).

GLI INTERESSI MEDITERRANEI DELL’ITALIA
L’altro grande impianto di liquefazione del gas egiziano per export è il SEGAS di Damietta, entrato in funzione nel 2004, con una capacità di 5,5 milioni di tonnellate l’anno. L’investimento è stato effettuato principalmente dal gruppo italo-spagnolo Union Fenosa Gas, una joint venture tra Gas Natural (50%) ed Eni (50%). L’impianto rifornisce soprattutto il mercato spagnolo attraverso il rigassificatore di Sagunto, presso Valencia, ed è gestito insieme ai due gruppi statali egiziani Egyptian natural gas holding company (Egas 10%) and Egyptian general petroleum corporation (Egpc, 10%). Nei giorni scorsi il gruppo di engineering petrolchimico Maire Tecnimont ha vinto un appalto del valore di 1,7-1,9 miliardi di dollari per la realizzazione delle infrastrutture di sito al servizio del Complesso “Tahrir” sul Golfo di Suez (l’opera verrà realizzata insieme al general contractor greco-emiratino Archirodon). Lo scorso febbraio poi Enel ha concordato la cessione a British Gas di sei cargo di gas liquefatto basate sull’impianto di Bonny Island (Nigeria), proprio per venire incontro alle difficoltà produttive e contrattuali riscontrate da BG in Egitto. In generale la presenza di diversi gruppi energetici, di ingegneria, costruzione civile, ecc in questo turbolento giovane capitalismo è importante in chiave geo-strategica per il ruolo che l’Egitto si candida naturalmente ad avere come hub tra Asia (India in particolare) ed Europa.

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