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L’inguacchio del Senato fotocopia

Respingendo un odg Piccioni-Moro, proponente l’istituzione di un senato degli interessi e delle regioni già passato al vaglio della commissione dei 75, nell’autunno 1947 una maggioranza eterogenea di comunisti, socialisti, liberali, socialdemocratici, qualunquisti, monarchici, formazioni protette dal capo provvisorio dello Stato Enrico De Nicola, grazie anche alle assenze volute di alcuni costituenti democristiani d’origine agraria, provocarono a Montecitorio quello che, con termine dialettale sudista, venne definito l’inguacchio. Cioè l’approvazione di un senato fotocopia della camera dei deputati con piccole varianti: un numero di senatori inferiore a quello dei deputati; un’età minima di 40 anni per essere eleggibili; un elettorato d’elezione più ristretto riservato a quanti, femmine e maschi, avessero compiuto i 25 anni; una durata di 6 anni, e non 5, come stabilito per la camera bassa.

Non si trattava soltanto di una votazione dispettosa della Costituente nei confronti del IV governo De Gasperi nato dopo la liquidazione del tripartito. Ma di una precisa rivendicazione iniziale (il monocameralismo) e di un fermo rifiuto dell’introduzione delle regioni e di un ordinamento autonomistico nella carta costituzionale. Gli assenti volontari democristiani erano anch’essi antiregionalisti sin dal tempo del popolarismo sturziano, e tali si erano mantenuti nei momenti costitutivi della Dc quando, estromesso Mussolini dal potere, erano stati resi noti i programmi democristiani per la nuova democrazia.

L’inguacchio, cioè il pasticcio emerso dalla approvazione di un senato che non corrispondeva più ai termini suggeriti dalla relazione Mortati e condivisi dal presidente della commissione dei 75 Meuccio Ruini, venne fatto rilevare subito dal partito democristiano. Che, con varie osservazioni pubbliche, specie con un articolo di Costantino Mortati sul quindicinale «Cronache Sociali», richiamò la necessità di rimediare all’errore macroscopico di un senato con le medesime funzioni della camera: il proposito era di ricorrere presto all’art. 138 della carta costituzionale per ribaltare, o comunque riformare la camera alta, che era assurdo fosse il doppione di quella bassa, cioè politica e con funzioni di controllo sull’esecutivo. Già dal 2 gennaio 1948, peraltro, fra Ruini e Guido Gonella (autore del programma democristiano per la definizione della costituzione) si sviluppò un carteggio nel quale venivano toccati i numerosi aspetti della costituzione che non avevano senso per come erano stati fissati nelle singole norme, e non soltanto nella seconda parte della carta. Per esempio in riferimento ai partiti, ai sindacati, a un bicameralismo che, obbligando sistematicamente ad una seconda lettura dell’intera produzione parlamentare, la ritardava, la complicava, creava persino le condizioni per l’abbandono di leggi approvare soltanto da un ramo del parlamento.

Insomma, né Ruini, né Gonella, né Mortati, né De Gasperi consideravano, l’italiana, la «più bella costituzione del mondo». Tutte queste eminenti personalità si riservarono di porre riparo agli errori commessi sin dalla I legislatura. Ma la presenza, nel primo senato del 1948, di ben 107 senatori di diritto, in grande maggioranza di sinistra ma anche provenienti dal liberalismo prefascista, avrebbe bloccato i propositi di revisione costituzionale. In più, quel senato alterato rispetto alla volontà espressa dal corpo elettorale, ritardò l’entrata in funzione delle regioni. Che vennero elette per la prima volta soltanto nel 1970: ventidue anni dopo l’entrata in vigore della «costituzione più bella del mondo». Insomma, si cominciò male, e si proseguì peggio, con un senato diventato un complicato duplicato non necessario della camera e con una farraginosità legislativa che frenava (e frena ancora nel XXI secolo) il paese, di cui pure s’invoca un profondo cambiamento.



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