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L’Italia e il mare cui nessun politico guarda più

Non sento mai nessun politico che illustri un programma di rilancio di questo paese individuando dei settori strategici. Pensando a come potremmo essere tra 5, 10 anni. E su che tipo di settori varrebbe meglio la pena puntare. Nessuno.
Ad esempio, mai nessuno che punti sul mare. Sulle coste, sul diporto, sull’industria nautica, su di un sistema integrato di porti e infrastrutture che possano rimettere il nostro paese al centro del Mediterraneo. Questi discorsi si fanno una volta all’anno di sabato dal Salone Nautico di Genova. E basta.
Perché Paolo Frascani, professore dell’Orientale di Napoli, che ha scritto numerosi saggi e testi sull’argomento, non è il consigliere di nessun politico seduto su qualche poltrona al Ministero dello Sviluppo Economico?
Certo la malattia, adesso cronica, assilla il malato da tempo. Già con l’unificazione, con l’imporsi di quei montanari dei Savoia l’approccio con il mare mutò ineluttabilmente.
L’Italia del mare divenne quella di Padron ‘Ntoni a bordo della Provvidenza. Paranza dal nome assai evocativo. Divenne l’Italia dei migranti che s’imbarcavano nei ventri dei piroscafi che dovevano portarli all’altro mondo. Che fu un poco come morire, per loro e per l’Italia. La disperazione e la miseria produsse, di là dell’Atlantico, storie e vicende straordinarie: da Don Vito Corleone fino a Charles Paterno. E il mare, dunque, anziché concedere speranze come il sonno i sogni, divenne solo il fondo delle cartoline che facevano da didascalia a quegli anni dei primi del Novecento. Poi ci fu il Fascismo, che bonificò la penisola dalla costa alla collina per farne terra agricola, fertile e produttiva. Assai poco si curò dello sviluppo costiero, se non per fini propagandistici legati ai bollori coloniali. Dopo la seconda guerra mondiale, la DC, quella dorotea e quella dossettiana pure, avviò il piano di industrializzazione del paese che portò alla nascita di agglomerati industriali in alcune località costiere bellissime: Chioggia, Ravenna, Taranto, Gela, Priolo, Piombino, Riva Trigoso. Luoghi che furono immolati sull’altare della rivoluzione industriale di casa nostra, sempre troppo cerchiobottista, di un paese senza materie prime che voleva diventare trasformatore di tutto. I porti, poi, che pure nacquero a supporto degli insediamenti industriali, ancora oggi non sono ben raccordati con il resto delle infrastrutture logistiche. Nel Mezzogiorno, manco a dirlo, in modo particolare. Il risultato è quello che vediamo sui quotidiani. A uno a uno questi siti vengono smantellati a mezzo procure. A dimostrazione di una politica incapace di avere autorevolezza nel definire un preciso quadro programmatico di sviluppo.
A dimostrazione del fatto che, allora, molti di quegli insediamenti non rientravano in un programma di lungo periodo che fosse strategico per il paese, ma solo all’interno di logiche di corto periodo, corte quanto la durata dei governi che ieri come oggi non duravano mai più di un anno, con l’obiettivo di riempire le bisacce elettorali.
E così un paese immerso nell’acqua non ha praticamente un comparto florido e robusto della nautica. Non c’è proprio perfino nel più costiero dei paesi una vera e propria cultura del mare. Pochissimi sono i diportisti che, percentualmente, corrispondono agli appassionati che si possono trovare in qualunque paese europeo anche senza una spiccata geografica propensione al mare. Per dire, dato che siamo il paese dei paradossi, Azymut Yachts, che è una delle più importanti aziende al mondo nella produzione e commercializzazione di super yachts, ha sede ad Avigliana in Piemonte sotto la Sacra di San Michele. Sic!
Oltre alle opportunità, ci siamo persi un pezzo forte della nostra identità. Quella dei maestri d’ascia ad esempio. A Pozzallo in Sicilia, per dire, isolano caso isolatissimo, i Cantieri Scala fanno rivivere, interpretando al meglio la modernità, quella esperienza. E sono un punto di riferimento per la manutenzione e la cantieristica di tutta la Sicilia Sud Orientale. Ma proprio a Pozzallo che è l’unico porto commerciale tra Siracusa e Gela, posizione che dal punto di vista geografico farebbe resuscitare pure Matsumoto, a seconda di dove ti trovi, sul pontile piccolo, quello grande, o sul piazzale, ebbene devi sapere che in quanto ad autorizzazioni dipendi dalla trimurti della burocrazia. Comune, Provincia e Regione. E c’è da farsi il segno della croce. Devi sperare che non venga mai nessuno a fare nessun controllo perché altrimenti inizia una via crucis di carte bollate e salamelecchi.
E, poi, abbiamo smarrito la vocazione a essere non dico navigatori, ma almeno semplici diportisti con tutti i vantaggi per l’economia. Perché, per tirarci fuori da questa totale assenza di vento, servono soldi e non basta un Soldini. Va riscoperta la propensione naturale verso l’incerto, verso l’orizzonte. Senza aspettare che venga indotta da miseria e privazioni.
L’immagine migliore per rappresentare tutto ciò è quella di Gaia con le sue amiche, testimonial della serie di spot per la Tim di alcuni anni fa. Dove, appunto, Gaia con una mano che tiene il telefonino e l’altra al timone pronta a chissà quale improbabile manovra, certifica con un sms pieno di abbreviazioni che non siamo più paese né di poeti, né di navigatori. Nello spot, non a caso, vanno a scogli.

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