“Nella knowledge economy o si è veloci o si è morti”
(Bill Gates)
Istruzione, trasporti, assistenza sanitaria, credito. Sono solo alcuni dei settori strategici dell’economia mondiale che già oggi cominciano a beneficiare dell’open data. Un beneficio che, secondo la società di consulenza McKinsey, si traduce nella nascita di nuove attività imprenditoriali e nella creazione di prodotti e servizi innovativi, per un valore stimato tra i 400 e 1.000 miliardi di dollari l’anno.
Sono i numeri di una rivoluzione.
Da quando si parla di open data, abbiamo guardato all’argomento prevalentemente in termini di surplus democratico che l’apertura dei dati può generare. Ora dobbiamo cominciare a fare i conti con il valore economico che, nell’era del capitalismo intellettuale, la condivisione dell’informazione può generare.
Una rivoluzione che però, per potersi pienamente dispiegare e realizzare, attende il concretizzarsi di alcune precondizioni necessarie. La prima ha a che fare con una maggiore standardizzazione dei dati, per favorirne un’interpretazione (e dunque una fruizione) univoca. La seconda riguarda la necessità di programmi di formazione, universale e continua.
Su tutto, poi, aleggia la vera condizione “trigger”, la volontà politica, che liberi totalmente i dati oggi detenuti dalla pubblica amministrazione (e a cascata quelli delle organizzazioni private), attivi gli investimenti necessari – tanto in formazione quanto in infrastrutture – ponga le basi perché le imprese private possano creare il mercato e in generale faccia da volano a quello che sarà un vero e proprio salto di paradigma.
Il risultato finale sarà un miglioramento generale della qualità della vita, tanto in termini di democrazia, quanto in termini economici. E il tutto, senza spargimenti di sangue. Praticamente, una rivoluzione perfetta.