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Come e perché bisogna riformare la diplomazia italiana

radici

Aprire un sipario storico è sempre un’incognita per gli analisti geopolitici. Le variabili in campo non seguono sempre la linearità ermeneutica sulla ricerca della verità, pur parziale, ma servono a chiarire i lembi non solcati dalle indagini ufficiali.

Questo metodo Benedetto Croce lo chiamava storicismo estetico, il cui capolavoro è da ravvisarsi nel suo “Storie e leggende napoletane”. Che la storia dei popoli e delle tradizioni sia superiore alle visioni della Grande Storia, quella dei trattati e delle conquiste, delle vittorie e degli imperi, dei diritti e delle costituzioni, pare quasi ovvia.

Come vediamo dall’evolversi dei focolai aperti nel mondo, gli incipit delle rivolte popolari, delle manifestazioni pubbliche e dell’indignazione sociale, si muovono sui sentieri dei sentimenti più che sulle condizioni oggettive dei diritti e delle politiche.

L’ evidenza di tale assioma lo possiamo intravvedere sia in Ucraina che in Turchia.
La corruzione e il disordine, l’ipersensibilità popolare alle imposizioni normative e comportamentali che irrompono e modificano le attitudini della quotidianità, generano quello che i pensatori come Croce chiamano storia delle libertà e religione della libertà.

Ecco che le norme, le costituzioni e le regole passano in secondo piano rispetto allo spirito popolare. Quest’ultimo però divide, non è omogeneo per estensione o potenza d’espressione, è caos perfetto, ove il sentimento più forte trascina il resto, le folle.

In queste ore buona parte delle cancellerie e dei ministeri degli affari esteri dei paesi G20 sono impegnati nell’individuare o indirizzare soluzioni pragmatiche ai focolai aperti.
L’Italia, con la crisi marò ha perso buona parte di quel che si chiama potere negoziale.

Siamo di fronte a una crisi sistemica nella gestione diplomatica dei conflitti. Sono talmente lenti i processi di negoziazione e le interdipendenze coinvolte che trovare il bandolo della matassa diviene quasi impossibile. I fili delle nazioni, di solito, possono evidenziare delle potenzialità che i tavoli multilaterali non permettono uniformemente.
Ecco perché l’Italia sui fronti aperti, Ucraina, Turchia e Venezuela può trovare un ruolo.

Noi abbiamo una forte tradizione negoziale fuori dai canali diplomatici “classici”. L’aver fatto coesistere in passato Ice e Ambasciate per la promozione economica ha fatto raddoppiare costi e portato un po’ di disorganizzazione nei coordinamenti strategici commerciali e diplomatici.

Quanti di questi sono effettivamente preparati per poter affrontare crisi e negoziati? Quali soluzioni offrono consulenti e incaricati speciali nella risoluzione degli interessi dei cittadini italiani all’estero? Quanti di questi hanno portato risultati misurabili in termini di efficacia e risoluzione, per non parlare dei conflitti giuridici?

Non mettere mai in discussione la propria capacità sistemica porta anche ai risultati che abbiamo sotto gli occhi.

Nulla è stato fatto per quanto riguarda l’ottimizzazione della rete diplomatica e per un piano di rivisitazione del suo ruolo e delle sue funzioni.
Abbiamo un bagaglio straordinario di negoziatori nei ranghi militari e tra funzionari dello Stato che, finite le missioni internazionali, rimangono dietro scrivanie e caserme sperdute invece di far integrare le loro competenze nelle reti diplomatiche e ministeriali.

Ci sono analisti geopolitici ed economici che vengono sballottati di dipartimento in dipartimento. Abbiamo un concorso diplomatico distante dalla formazione contemporanea delle competenze per le relazioni internazionali. Salotti e circoli esclusivi non offrono garanzie istituzionali e capacità di lettura della realtà. Infatti, se vediamo i risultati diplomatici italiani nel mondo lo dobbiamo più alla nostra rete militare e commerciale-finanziaria rispetto a quella diplomatica relazionale. Chi lavorerà per rendere la nostra diplomazia 3.0, alla pari con gli standard della UE e dei maggiori Paesi di riferimento geopolitico?

I focolai stanno accendendo il mondo e le sfide saranno sempre più “irrazionali”, oblique e asimmetriche. Bisognerebbe creare un Comitato parlamentare sulla riforma della Diplomazia italiana, coinvolgendo esperti e uomini di Stato che possano delineare i nuovi profili strutturali e una strategia nazionale di posizionamento, che possa poi sfociare in un documento di politica internazionale con una proiezione verso il 2030, poiché non si possono più rinviare gli strumenti fondamentali per l’Italia.

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