Sulla partita delle nomine, che ha l’unico momento pubblico nelle audizioni dei capi di Eni, Enel, Finmeccanica e Terna e nella conseguente analisi dei loro conti in corso al Senato, si è abbattuto il ciclone del taglio delle remunerazioni dei manager di Stato, sostenuto con un certo clamore dal premier in persona. Un taglio al quale si è opposto Mauro Moretti, amministratore delegato delle FS, il cui mandato è già stato rinnovato mesi fa, con argomentazioni condivisibili quanto minoritarie.
Ora, siccome Moretti ha risanato i conti delle FS costando meno della metà del suo predecessore che aveva proseguito nel disastro di sempre, vale forse la pena di capire prima perché Renzi sia maggioritario e Moretti no e poi se questo sia l’unico modo di trattare la questione dei soldi.
LE SFORBICIATE DA PRODI A LETTA
L’iniziativa di Matteo Renzi, diciamolo subito, dà soddisfazione a un sentimento diffuso nell’opinione pubblica. Aveva già battuto la stessa strada nel 2007 il governo Prodi su pressione di Rifondazione comunista, che l’anno prima prometteva di “far piangere i ricchi” non sapendo come far sorridere i poveri. Anche il governo Letta aveva sforbiciato qua e là, ma salvando i capi delle aziende presenti sul mercato finanziario con azioni e/o obbligazioni quotate. Con il risultato di colpire la busta paga di pochissimi, l’ad di Invitalia e non ricordo più chi altri.
RENZI COLPISCE A TAPPETO
Oggi, nella primavera del 2014, al sesto anno di crisi, Renzi vorrebbe superare le eccezioni del suo predecessore e colpire a tappeto, anche se non è chiaro se e come vorrà incidere sulle total compensation delle società quotate delle quali il Tesoro detiene il controllo di fatto. Il taglio generalizzato sembra non tenere in alcun conto né la qualità professionale delle persone né la consistenza dei risultati. Un taglio lineare, insomma, che si giustifica con il pregiudizio secondo il quale tutti i servizi pubblici sono pessimi e dunque incapaci vanno considerati i loro gerenti. Togliere denari a queste persone avrebbe il significato di un risarcimento.
CHI PAGHERA’ IL PREZZO
Sono sicuro che il premier ha un’opinione ben più articolata e sofisticata, ma la gente che si forma l’opinione ascoltando i talk show, leggendo i tweet sullo smartphone o smanettando sul web non fa troppe distinzioni. Un numero crescente di persone, che ancora nel 2007 non aveva niente da ridirei sulle banche, faceva mutui pari al 100% del valore della casa e comprava a debito un po’ tutto trovando chi gli dava credito, oggi sta scivolando verso un neopauperismo radicale pieno di rancore sociale e povero di speranza. Sì, povero di speranza nella possibilità di farcela. Quando l’ascensore sociale si ferma, cambia il modo di pensare. Si incattivisce. E da chiunque sia considerato parte della classe dirigente si pretende il pagamento di un prezzo.
CERVELLI IN FUGA
Moretti avverte che, sotto certe soglie retributive, le aziende pubbliche perderanno i cervelli migliori perché questi, specialmente se giovani, potranno trovare facilmente alternative nel settore privato italiano o addirittura all’estero. Porre come punto di riferimento il compenso del capo dello Stato ha certamente senso per chi fa politica nelle istituzioni e forse anche per l’alta burocrazia che, per la posizione che occupa, non può andare sul mercato. Ma un capo del personale è un capo del personale e non ha senso pagare chi ha la responsabilità di 80 mila persone meno di chi ne deve seguire 8 mila o fors’anche 800. Alla fine le aziende, pubbliche o private che siano, sono aziende.
L’ESEMPIO DELLA GERMANIA
In Germania, dove la pubblica amministrazione e le grandi imprese pubbliche e private sono più serie che in Italia, il capo di Deutsche Bahn prende il triplo del capo di FS e non so quanto di più del cancelliere Angela Merkel e del presidente della Repubblica Federale di Germania. Dunque, di che parliamo? Già, di che parliamo quando diciamo che Moretti deve prendere non più di quanto non prenda il presidente Napolitano?
SERVE UN PIANO GENERALIZZATO
Parliamo del fatto che il Paese in sofferenza merita solidarietà. E qui l’iniziativa del premier può prendere quota seriamente. Purché si abbandoni l’idea del taglio lineare, riservato alle sole aziende pubbliche e ai pubblici dipendenti, e si passi a un piano di solidarietà generalizzato. Il Paese che soffre, infatti, non è tutto il Paese ed è giusto – oltre che utile ai fini della convivenza civile – che chi più ha più dia, magari per un periodo temporaneo. Ma ancor più sarebbe proficuo riattivare l’ascensore sociale che solo può restituire, con la speranza, il buon umore che aiuta a superare momenti difficili.
RIATTIVARE L’ASCENSORE SOCIALE
I salari di chi ricopre responsabilità elevate, sia nel settore pubblico sia in quello privato, possono e devono essere un multiplo di quelli medi o, meglio, del salario mediano di ciascuna impresa dove abbia senso istituire tali relazioni. Ma nulla vieta al governo di chiedere – il che significa un po’ anche pretendere – un contributo speciale e cospicuo a un fondo di solidarietà da dedicare a nobili scopi. Un contributo a fondo perduto ovvero la sottoscrizione di un Btp a tasso stracciato. Si vedrà.
LA PARTITA DELLE NOMINE
Adesso il governo deve affrontare la partita delle nomine. Nelle società a partecipazione statale si è formata una giungla retributiva. Tra Finmeccanica e l’Eni c’è un abisso. I beneficiari delle remunerazioni veramente d’oro assicurate dal paracadute di platino hanno sempre giustificato le loro pretese sostenendo che questa è la legge del mercato. Molti giornali, inondati di pubblicità istituzionale che salva i budget tremolanti delle loro concessionarie, hanno fatto da grancassa. Ma non è vero che nel mondo non esistano grandi manager disposti a prestare la loro opera, per cifre nettamente inferiori a quelle i uso da 10-15 anni da noi. Il capo della francese Total guadagna la metà del capo dell’Eni e la Total va pure meglio. Idem per il capo di Edf rispetto all’Enel. Enrico Mattei, il fondatore dell’Eni, viveva in modo francescano.
Ora nessuno pretende che rinasca un Mattei. Beato quel Paese che non ha bisogno di eroi, diceva Brecht e aveva ragione. E infatti i top manager francesi che ho citato, guadagnano molto bene, ma molto meno dei colleghi italiani.
Ora, la campagna del governo sulle paghe potrà evitare le secche del populismo, che paga alle urne oggi ma non costruisce nulla per il domani, se chiamerà tutti a un contributo solidale: non solo Moretti, ma anche Montezemolo, per capirci al volo. E poi se farà in modo che anche nelle società quotate a controllo pubblico ci siano retribuzioni più contenute e legate ai risultati più seriamente di quanto non sia accaduto finora.
Ma come si fa con le società quotate, diranno gli amici del giaguaro? Semplice, il Tesoro metterà in lista non solo i migliori ma anche i migliori non così avidi da non capire che, di questi tempi, chi guida una grande azienda pubblica può ben guadagnare di più di Napolitano, che fa un altro mestiere, e al tempo stesso di meno della maggior parte degli uscenti. I comitati per le remunerazioni, formati da consiglieri indipendenti non all’orecchio del Tesoro, potranno dire quello che vogliono, ma se gli interessati si autolimitano, questi comitati-paravento non potranno far altro che prenderne atto, com’è accaduto in Finmeccanica.
Da questi manager, che si dovranno sentire onorati di servire l’interesse generale nella imprese a totale controllo pubblico e l’interesse generale mediato con quello degli altri azionisti nelle società quotate a controllo pubblico, sarebbe infine lecito attendersi forme di coinvolgimento dei lavoratori nel reddito d’impresa legando l’evoluzione delle retribuzioni del vertice a quelle della base.
C’è stato un tempo in cui le aziende pubbliche facevano miracoli, e Renzi a Firenze avrà sentito certamente parlare di La Pira e del Pignone. Non è necessario che si ripetano, anche perché al Nuovo Pignone ha poi fatto bene anche la General Electric. Ma c’è stato un tempo in cui le Partecipazioni statali aprivano le porte a contratti migliori per i dipendenti. Poi hanno deviato verso consociazioni con i sindacati non certo ripetibili. Ma se lo Stato fa l’azionista come Agnelli, che Stato è?