Pubblichiamo un articolo di Affari Internazionali
Oltre a costituire un possibile punto di svolta per l’Afghanistan e per l’intera regione centroasiatica, la fine della missione Isaf (International Security Assistance Force), fissata a dicembre di quest’anno, rappresenta una difficile sfida per gli stati che vi hanno preso parte.
Alle difficoltà che un’operazione del genere comporta si aggiungono le incognite derivanti da una situazione politica estremamente fluida come quella afghana. Nel caso dell’Italia, poi, il “caso Shalabayeva” potrebbe complicare ulteriormente il piano per il ritiro.
In occasione del vertice interministeriale della Nato tenutosi il 4 e 5 giugno 2013 a Bruxelles, i paesi alleati si erano impegnati a rimanere in Afghanistan anche dopo il 2014 nell’ambito della missione Resolute Support, che dovrebbe coinvolgere un totale di 10-12 mila uomini e avere come principale obiettivo quello di continuare ad addestrare ed assistere le forze di sicurezza afghane, ma senza compiti di combattimento.
Si tratterebbe di una missione più limitata rispetto a Isaf, ma fondamentale per garantire il corretto utilizzo dei fondi che nei prossimi anni verrebbero stanziati per l’Afghanistan, in particolare per l’equipaggiamento e gli stipendi delle forze di sicurezza afgane (circa 4,1 miliardi di dollari l’anno).
Tuttavia, la mancata firma dell’Accordo bilaterale di sicurezza (Bilateral secutiy agreement, Bsa) con gli Stati Uniti da parte del presidente Hamid Karzai sta complicando i piani della comunità internazionale.
Attualmente, l’Italia schiera circa 2mila uomini in Afghanistan. Il 28 gennaio, la base operativa avanzata La Marmora di Shindand, ultima delle Forward Operating Base (Fob) italiane è stata ceduta definitivamente alle forze di sicurezza afghane, nell’ambito del passaggio di consegne della responsabilità della sicurezza da Isaf alle autorità locali.
Essa diverrà la sede della brigata aerea della nascente aeronautica militare afgana di cui gli italiani, con 35 istruttori dell’aeronautica Militare, stanno preparando piloti e controllori di volo.
Con la cessione della Marmora, la Transition Support Unit Center si è rischierata interamente a Camp Arena (Herat), sede del Regional Command West sotto il comando dell’Italia. Nei piani, l’Italia dovrebbe mantenere una presenza di circa 800-900 soldati da impiegare nell’ambito della Resolute Support, per una spesa annua stimata in 200 milioni di euro.
Secondo fonti della difesa, “le spese prevedibili a regime (800-900 unità) si attestano intorno ai 250-300meuro. Dipende comunque dal tipo di missione che verrà indicata (non combat) per cui presenta un certo grado di variabilità”. Tuttavia, un mancato accordo tra Washington e Kabul sul Bsa si tradurrebbe nell’inevitabile ritiro di tutto il contingente Isaf con conseguenze negative dalla portata imprevedibile sulla stabilità del paese.
Il ritiro dall’Afghanistan rappresenta un’operazione estremamente delicata. Si tratta, infatti, di un paese senza sbocchi sul mare, situato in un complesso contesto regionale, se si considerano i difficili rapporti tra Kabul e i suoi vicini. Ogni azione deve essere pianificata con la massima attenzione e decisa di concerto con gli altri paesi Nato. Un ritiro disordinato e male organizzato, infatti, esporrebbe a notevoli rischi chi restasse eventualmente indietro.
Sinora, l’attività di redeployment ha comportato il rientro in Italia di oltre mille soldati e un totale di quasi tremila metri lineari di carico, comprese centinaia di mezzi mobili campali e veicoli tattici.
Il principale responsabile della esecuzione del piano di ritiro è l’Italfor, l’unità logistica del contingente italiano, guidata dal colonnello Riccardo Sciosci che ricopre anche la carica di Comandante logistico nazionale. I mezzi e gli uomini sino a oggi movimentati sono stati rimpatriati mediante ponti aerei da Herat a Dubai e da lì imbarcati e trasferiti in Italia. Il trasporto dei materiali è stato concesso in appalto a una ditta ucraina che dispone di vettori aerei idonei, per un costo di circa 70mila euro per ogni volo di andata e ritorno.
Per quanto riguarda il rientro dei mezzi e degli uomini ancora di stanza in Afghanistan, le opzioni sul tavolo dei decisori italiani sono essenzialmente tre.
La prima, quella del ponte aereo sino a un porto del Golfo (Abu Dhabi piuttosto che Dubai) e il successivo imbarco e trasferimento in Italia, è quella che pone meno interrogativi dal punto di vista politico e della sicurezza. Si tratta, tuttavia, anche dell’opzione più onerosa dal punto di vista economico. Pertanto, è probabile che venga utilizzata per il rimpatrio dei materiali di cui le forze armate italiane potrebbero necessitare nel breve periodo, oltre che per il ritiro dei soldati (per il quale è percorribile anche la scelta di voli commerciali).
Daniele Grassi è security analyst per Infocert.