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Arrivederci Africa. Ecco i sorrisi donati (e ricevuti) nella missione in Benin

Da Cotonou (Benin)

Chiudo lo zaino, nella stanza l’odore di questi giorni, una bottiglia di acqua vuota resta sul comodino.

Fra poche ore ho il volo di ritorno per Roma. Ho impresso il sapore della manioca e del latte di capra, fa caldissimo, ho riempito tutte le pagine del moleskine e così ieri ho comprato un quaderno di carta strana, leggera e scusa, userò quello anche per le riunioni a Roma.

Me l’avevano detto che un viaggio così ti resta dentro ma non pensavo fino a questo punto.

Ieri i medici hanno continuato ad operare tutto il giorno, io ho conosciuto Eustache che lavora con Emergenza Sorrisi Benin, abbiamo parlato del Benin e dell’Africa in generale, impossibile non parlare di progresso, di sviluppo. Ed Eustache, con il viso rassegnato mi ha detto: Andiamo.

E siamo partiti su una Ford scassata, che ogni km su strade sconnesse, senza asfalto è un miracolo, dopo due ore siamo arrivati a Ouida, una città antica usata come porto per la deportazione degli schiavi nell’epoca coloniale. Siamo arrivati alla cosidetta “porta dell’oblio, un totem intorno a cui gli uomini e le donne schiavi, già venduti e marchiati dovevano girare 9 volte per dimenticare chi fossero, la loro cultura, la loro religione, il loro nome e diventare gusci vuoti a servizio dei loro padroni.

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La strada degli schiavi è una lunga striscia di terra che è stata percorsa da migliaia e migliaia di uomini che su quella strada hanno lasciato il sogno di essere liberi e la speranza di nutrire la terra in cui sono nati, la percorriamo tutta fino all’oceano… Ed Eustache mi dice, qualsiasi riflessione sull’Africa non può che partire da qui: “non soprenderti che siamo poveri, gioisci che siamo vivi e che ora siamo liberi”. Ed è lì che ti fermi e ti chiedi se davvero siano serviti i tanti seminari sull’integrazione dei Paesi in via di Sviluppo, i libri di economia o se ho imparato di più in questi 5 km sotto il sole e la polvere.

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Andiamo in città e l’Africa mi appare con la potenza di tutta la sua tradizione, il vodoo è riconosciuta come la religione di stato insieme alla confessione cristiana e musulmana. Andiamo al tempio dei pitoni, non c’è un solo uomo bianco, non un turista, pochissimi parlano francese. Donne e bambini sono coperti a stento. Il mercato è un grande spazio dove erbe, carcasse di animali in decomposizione, frutta, cibo, talismani, bambole sono ammassati su bancarelle di palma intrecciata. Un uomo nudo e magro mi vede ed urla qualcosa.

È un turbinio di parole che non conosco, odori, suoni, immagini nuove. Riconosco l’incenso, sento la pioggia, si ancora la pioggia anche se nessuno sembra accorgersene. Le strade sono un pantano marrone adesso, dove affondano le ruote dei centinaia di motorini che la percorrono. Sono necessarie quattro ore per tornare indietro. E sono qui, all’ospedale con una connessione che va e viene a causa della pioggia, lo zaino è lì e sta arrivando la macchina per portarmi via.

Saluto tutti, sia chi conosco sia chi sto incontrando adesso. Dentro di me una preghiera muta per loro.

Abbraccio i medici. E parto. Roma mi aspetta, mi aspettano tante ore di volo per interiorizzare quello che ho visto e sentito questi giorni, per farne un dono da regalare a chi incontrerò, per tornare alla mia vita di sempre con una consapevolezza nuova: nulla vale quanto la gioia del dono.

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