Non ha torto Antonio Polito a chiudere un suo editoriale sul Corriere della Sera (14 aprile) asserendo: «Se i vari tronconi del centrodestra arriveranno divisi e in funzione di ascari all’appuntamento fatale con un nuovo patto costituzionale, rischiano di scomparire dalla geografia della Terza Repubblica, dopo avere inventato e dominato la Seconda». In sostanza, è la stessa tesi che andiamo da mesi sostenendo su Formiche.net, avvertendo sin dal principio che il risultato del voto per la XVII legislatura sarebbe stato produttivo se si fosse partiti, in maniera convinta, da una condizione di valenza storica: una seria, decisa, motivata, irreversibile pacificazione nazionale.
Polito non è tra gli opinionisti luogocomunisti. Mantiene una critica autonoma anche nel variare degli umori e degli interessi della direzione e della proprietà di quello che fu, in tempi remoti, il quotidiano della borghesia lombarda, ed ora ammicca a sinistra ma con toni giustizialisti e talvolta forcaioli. Polito viene da altra scuola. Possiede il senso ordinamentale del bicameralismo. Insegna anche a noi come concorrere a prefigurare una Terza Repubblica: inevitabile dopo il clamoroso fallimento di un bicameralismo diventato tripolare, ma con il pesante condizionamento di un’antipolitica che non demorde neppure dinanzi all’inqualificabilità delle sue rappresentanze parlamentari e alla persistenza di un astensionismo tanto vasto da rasentare la metà dell’elettorato nazionale.
Polito usa un’espressione – nuovo patto costituzionale – che è molto cara al mio passato democristiano. Ha ragione perché quel patto, proposto nel 1967, ovviamente aggiornato ai giorni che viviamo, potrebbe costituire la chiave di volta per costruire un sistema di democrazia compiuta: nel quale maggioranza e opposizione (temporanee) si legittimano reciprocamente per operare una indispensabile revisione della carta del ’48, ma politicamente sono alternative l’un l’altra, liberamente competendo per affermarsi con programmi propri, distinti, non confondibili.
Però Polito motiva il suo giudizio conclusivo ricorrendo a una valutazione un tantino diversa. Scrive che il centrodestra non è più utilizzabile come «moltiplicatore automatico di voti», per il semplice fatto che «la sinistra ha rotto il tabù fiscale e su le tasse dice ormai – e vedremo se Renzi manterrà le promesse – le stesse cose della destra. Alla quale, dunque, tocca adesso trovare «un nuovo senso, oltre che un nuovo leader». E qui, francamente, non comprendo l’obiezione. Giacché, in difficoltà non sarebbe, anzi non è, il centrodestra, bensì una sinistra che fa sue le posizioni del centrodestra tradizionale, ma non si sa se si attesterà su tale linea.
L’argomentare di Polito, tuttavia, va riguardato anche in base ad un’altra sua considerazione, secondo cui la colpa della dissociazione interna al centrodestra sarebbe dovuta «alla sciagurata decisione di Berlusconi di mollare il governo Letta». Il che, in verità è avvenuto nel novembre 2013, quasi quattro mesi dopo la pronuncia della cassazione che condannava Berlusconi a perdere la sua agibilità politica. A volere restare obbiettivi, si dovrà ammettere che il centrodestra è stato mutilato da quelli che Polito chiama «ascari» e le cui ambizioni sfrenate rischiano, è vero, di condurre il centrodestra alla scomparsa politica. In ogni caso i termini di confronto, fra centrodestra e sinistracentro, non concernono tanto la questione fiscale, bensì quella della giustizia. O, meglio, della malagiustizia; dei cui spropositi non si deve minimamente approfittare, se si crede nello Stato di diritto e in un sistema di libertà.
Ora che il tribunale di sorveglianza ha restituito a Berlusconi un minimo di agibilità politica, i gruppetti che ritenevano di avere spianate ampie pianure sul loro luminoso cammino, dovranno rivedere le proprie ambizioni. E finire con l’accodarsi ad un leader che opera su strategie riformatrici più che badare a ministerialismi subordinati alla sinistra.