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Così la musica dei Mashrou’ Leila racconta le rivoluzioni arabe

Cantano il Medio Oriente e le rivoluzioni arabe, si chiamano Mashrou’ Leila e vengono da Beirut. Hanno 25 anni e sono sbarcati per la prima volta sbarcano in Italia per un concerto speciale al Middle East Now, il festival che dal 9 al 14 aprile a Firenze ha raccontato il Medio Oriente contemporaneo attraverso cinema, documentari, fotografia, progetti artistici, musica, cibo, incontri ed eventi speciali. Stanno cambiando la musica con lo slogan “occupy arab pop” e sono la più famosa band indie-rock mediorientale. Hanno devoluto il ricavato dell’esibizione di venerdì 11 aprile a sostegno dei progetti Oxifam a favore dei profughi siriani in Libano.Formiche.net ha intervistato Hamed Sinno, cantante di Mashrou’ Leila.

Ecco la loro esperienza raccontata a Formiche.net durante la conferenza stampa prima del concerto.

La vostra musica dimostra che il Medio Oriente sta cambiando?
C’è stato sicuramente un cambio culturale e sociale. Non tutto però prima era così oscurantista come si pensa in occidente. In questi anni c’è stato un terremoto che ha rafforzato questi mutamenti, ma molto rimane ancora da fare. Il bianco e nero non esiste, la situazione non era pessima prima e non è ottima ora.

Foto di Emanuele Luca

La primavera araba ha raggiunto i suoi scopi?
Non tutto è andato esattamente come la gente voleva, ma il risultato non è un disastro come spesso si dice. Ci sono state molte conquiste, è un risultato in chiaro scuro. La Tunisia per esempio ha oggi un ottima costituzione, la Siria invece è il vero disastro. Gli altri paesi stanno nel mezzo. Comunque se parli con i rifugiati siriani in Libano, anche loro hanno ancora speranza. Ci vorrà però del tempo.

Oggi c’è maggiore consapevolezza delle proprie libertà?
Sicuramente sì, quando, per esempio, il nostro cantante Hamed Sinno, ha dichiarato che era gay pensavamo sarebbe successo un putiferio, invece non è accaduto nulla.

Su questi temi ci sono differenze tra i vari paesi del Medio Oriente?
Oggi molto meno di prima, sicuramente Beirut è molto diversa, perché avendo talmente tanti partiti politici e confessioni religiose, siamo avvezzi al pluralismo. Per questo da un lato abbiamo pagato con una guerra civile, ma dall’altro, non avendo un governo forte, siamo abituati a sentire mille opinioni diverse. In Egitto, invece, prima avevano un sistema centrale molto forte e la sinistra era schiacciata. Dopo la rivoluzione le cose sono mutate velocemente e almeno nella società civile la gente oggi dice quello pensa.

La depressione e le situazioni difficili aiutano la creatività?
Ci abbiamo pensato molto e francamente non abbiamo una risposta certa. Sicuramente paesi con regimi dittatoriali come l’Iran hanno finito per creare un opposizione diffusa estremamente creativa. Allo stesso tempo però in Persia ci sono maggiori risorse economiche e gli artisti possono finanziare più facilmente le loro opere, se emigrano è perché sono censurati. Dal Libano se ne vanno tutti, non per problemi di censura, ma perché c’è una forte crisi economica. A Beirut, più che oppressione oggi c’è instabilità e mancato supporto economico all’arte. Dopo la guerra era diverso, per molti anni c’è stata effettivamente una vitalità artistica nata dal bisogno di rinascere. In generale vi è anche un fattore umano, se davvero vuoi esprimerti la fai anche se il mondo fuori di te è complicato. I libanesi sono sicuramente spesso depressi per le difficoltà, ma allo stesso tempo a Beirut la vita è sempre elettrizzante e c’è sempre qualcosa di artistico da fare o vedere.

Che musica ascoltate?
Siamo quasi onnivori, se per un periodo siamo ispirati da un genere o da un gruppo musicale, lo studiamo a fondo, poi dopo un po’ magari cambiamo completamente. In Libano siamo cresciuti più con la musica occidentale perché in quella mediorientale non ci riconoscevamo molto. Ora che facciamo musica è tutto diverso, ascoltiamo i lavori degli altri con un interesse nuovo. Sicuramente da ragazzi ascoltavamo di tutto, dal rock al metal, al jazz. C’era chi amava i Beatles, chi Cher o Madonna. Siamo cresciuti con Mtv o Radio 1. Era il principale accesso che avevamo alla musica e quindi i grandi successi internazionali erano il nostro universo principale. Oggi abbiamo scoperto che c’era anche un mondo musicale arabo interessantissimo, ma allora era di difficile accesso e solo ora che siamo musicisti lo stiamo riscoprendo. Negli ultimi anni, in Medio Oriente, al contrario di prima, la scena musicale è molto viva e le band sono numerose e fanno un ottima musica.

Come sono i rapporti tra di voi?
Quando abbiamo iniziato era più difficile, ascoltavamo e scrivevamo cose diverse, abbiamo dovuto trovare un equilibrio. Dopo tutti questi anni molto è cambiato, siamo quasi una famiglia. Ogni tanto ci diciamo delle cose che solo noi possiamo capire, o a volte facciamo delle battute pensando che siano divertenti e poi ci rendiamo conto che lo sono solo per noi.

Che sensazioni avete durante i concerti?
Abbiamo suonato in tantissimi posti, alcuni anche molto strani. All’inizio a Beirut non sempre gli spettatori ci capivano. In generale preferiamo suonare in piccoli locali perché si crea più feeling. In Egitto e Libano siamo ormai abituati ai grandi eventi, ma nei piccoli concerti si crea più facilmente quel feeling quasi new age. Si tratta di un equilibrio molto particolare da creare. Ti sottometti al pubblico e lo controlli allo stesso tempo. Con le grandi folle questo può avvenire solamente se davvero amano moltissimo la tua musica.

Come è il rapporto con i fan?
All’inizio erano amici che venivano a vederci, adesso le cose sono cambiate, solo su Facebook abbiamo più di 170 mila persone che ci seguono, purtroppo non è più possibile avere un rapporto quasi personale con tutti i fan come avevamo anni fa. E’ una situazione strana, grazie a molte di queste persone abbiamo auto prodotto il terzo cd con un crowdfunding.

In Egitto avete un successo immenso.
L’Egitto per noi è un sogno, è il paese che ci ha consacrato insieme al Libano. è la nazione in cui abbiamo più fan. Tutto è nato grazie a You Tube. La gente ci cercava perché la musica era in sintonia, sia con la rivoluzione, sia con i loro sentimenti personali. I concerti lì sono momenti quasi, ad Alessandria a ottobre abbiamo suonato due volte di fila senza fermarci sul tetto di un grattacielo. C’era troppa gente per fare un solo concerto. In Egitto la gente impazzisce per noi, ti senti Mick Jagger. Tutto questo non è però facile perché noi siamo persone normali e tali vorremmo rimanere, certe volte tutto questo ci fa un po’ paura. La prima volta che andammo al Cairo suonammo in un teatro, cerano centinaia di persone fuori che cercavano di entrare, non tutti però sono riusciti. Era un sobrio evento jazz e alla fine hanno perso il controllo, la gente ballava con noi sul palco. Fu molto divertente.


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