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Così Varsavia vede l’Italia, l’Europa e la crisi ucraina. Parla l’ambasciatore Ponikiewski

Gli sviluppi, ancora imprevedibili, della crisi Ucraina visti attraverso l’angolo visuale della Polonia assumono tutt’altra dimensione, rispetto a quanto percepito dal cittadino, e per certi aspetti anche dai politici, dell’Europa occidentale.

Da noi si guardano i telegiornali, si vedono i movimenti di truppe, le colonne di blindati russi diretti ai confini, ma sostanzialmente non c’è molto più pathos di quanto già visto in Libia, Tunisia, Egitto e, anche pochi anni fa, nella ex Iugoslavia. Insomma sembriamo mitridatizzati, coltiviamo il nostro piccolo orticello, fatto di polemiche, ripicche, scandali e il resto del mondo lo chiudiamo fuori dalla porta all’ora di cena.

L’Europa politica dell’Occidente con tutti i suoi riti e serie di incontri, consigli straordinari a Bruxelles, diplomatici e funzionari, cortei di limousine con ministri e accompagnatori, addetti stampa e segretarie in tailleur grigi, è apparsa annichilita agli occhi delle popolazioni ucraine ed est europee. Come il cervo che attraversa nel buio la strada asfaltata e rimane paralizzato dai fari abbaglianti del fuoristrada che arriva a tutta velocità, la fine è nota.

Ma, per chi ha vissuto la ferocia del comunismo sovietico per circa 45 anni e ha visto la propria terra e l’identità di Patria ridotta allo status di “colonia”, la prospettiva è totalmente diversa. Senza fronzoli e peli sulla lingua, il ministro degli Esteri polacco, Radoslaw Sikorski, ha dichiarato: “Il referendum in Crimea è una farsa. Un voto a mitra spianati, non dissimile da scenari che abbiamo già incontrato nella storia europea e polacca in particolare. La Polonia, membro della Ue e della Nato, non può consentire che la crisi ucraina diventi per il presidente russo Vladimir Putin il preludio di un ritorno a pratiche di conquista territoriale tipiche del XIX secolo. La Nato deve dimostrare al mondo di poter proteggere gli stati alleati”. E, parlando dell’Europa, ha proseguito: “Sui leader europei pesa una grave responsabilità. Gli ucraini e il mondo intero hanno bisogno di credere in noi. L’Unione non è uno stato centralizzato come la Russia, si fonda su valori del tutto differenti. Solo se riusciremo a sconfiggere le nostre debolezze e indecisioni, potremo aiutare l’Ucraina e gli altri paesi che sognano un ordine economico e politico pari a quello europeo. La ricerca di soluzioni politiche alla crisi deve basarsi su una chiara distinzione tra chi aggredisce e chi è aggredito”. Non le manda a dire Sikorski, non si può sempre mantenersi in bilico in quella zona grigia, fatta di ambivalenze diplomatiche, difesa degli interessi economici, il gas, il petrolio, ecc. Anche perché egli ricorda benissimo gli slogan in uso 70 anni fa nelle cancellerie europee di allora. “Non si può morire per Danzica”, si diceva di fronte all’aggressione nazista della Polonia, poi sappiamo com’è andata a finire.

La posizione americana è riassunta molto bene dal tre volte premio Pulitzer, Thomas Friedman: “Meglio non fare nulla, sappiamo molto poco delle complessità dei Paesi di quell’area, così come non sapevamo l’impiccio in cui ci siamo cacciati in medio oriente. Siamo come americani, forse in grado, a costi considerevoli, di impedire che in quei paesi succedano cose brutte, ma non di far succedere cose belle. E poi – continua Friedman – quando cerchiamo di far succedere cose belle ci assumiamo la responsabilità di risolvere i loro problemi: una responsabilità che in realtà spetta a loro”. Insomma “realpolitik” allo stato puro. E, infatti, il referendum in Crimea si è svolto senza problemi. I filorussi hanno stravinto col 96% dei consensi (neanche nella Bulgaria ai tempi di Breznev!), Putin ha “invitato” la Duma a ratificare la “richiesta” del popolo di Crimea e la Ue e gli Usa, hanno preso atto con la risibile sanzione di vietare l’ingresso ad una ventina di oligarchi più o meno noti della Federazione russa.

Sintesi del ministro degli Esteri lussemburghese, Jean Asselborn: “Abbiamo perso la Crimea, questa è la fase due e nessuno vuole vedere la numero tre”.

Abbiamo voluto sentire, quando le bocce ancora non sono ferme, Wojciech Ponikiewski, ambasciatore della Repubblica di Polonia presso Repubblica italiana, Repubblica di San Marino e Repubblica di Malta. Ci ha ricevuti nella sua residenza privata per una leggera indisposizione, uomo affabile e cortese (come d’altronde è connaturale a un diplomatico), profondo conoscitore dell’Italia e di Roma in particolare (ha scritto una guida in polacco sulle meraviglie della Città Eterna e sulle famiglie dei Cardinali che hanno segnato la storia della Chiesa).

Mi dispiace dirlo in modo brutale, ambasciatore, ma la Crimea appartiene ormai alla Federazione Russa.
“Siamo molto preoccupati. A noi, per la nostra storia, impressiona assistere nel 2014 al fatto che un paese possa strappare ad un altro paese un pezzo della sua terra in modo arbitrario. Senza una ragione plausibile, in barba a tutti i trattati solennemente firmati. Tutti hanno chiuso gli occhi e hanno permesso questa lacerazione. Mi ricorda la politica delle “cannoniere” tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento. È inquietante, per noi, assistere a questa situazione inquadrata da molti paesi, solo nell’ambito dei rapporti economici tra la Ue e la Russia. La situazione va valutata dal punto di vista soprattutto dei rapporti politici. Non possiamo permettere che i rapporti economici vengano prima di tutto. Lo dico come Ambasciatore di un Paese che ha enormi interscambi economici con la Russia. Il 60% del gas utilizzato in Polonia proviene dalla Russia, in Italia siete intorno al 30%. La Russia per noi è un mercato estremamente importante per es. per la nostra produzione agricola e già sentiamo gli effetti della situazione sui nostri agricoltori. Noi continuiamo a sperare che la vicenda possa sbloccarsi con i negoziati diplomatici, ma siamo più che coscienti che la politica debba prevalere sull’economia. Speriamo che tutti i Paesi dell’Ue vogliano condividere questa linea.

Cosa pensate di fare concretamente se la situazione non cambia?
Se non c’è neanche una prova di de-escalation da parte della Russia, vanno rafforzate le sanzioni. I capi di governo e di Stato europei devono trovare delle forme d’intervento incisive che non consentano il ripetersi di questi gravi fatti. Il Presidente Putin è stato considerato un interlocutore affidabile dagli europei per risolvere dei problemi. Anche in questo caso potrebbe svolgere tale ruolo. Ma, d’altro lato ci siamo scordati in fretta della guerra in Georgia, sempre preoccupati dalle forniture energetiche. Ripeto, nel caso dell’Ucraina si è trattato di un’azione unilaterale da parte della Russia, la stessa Russia che nel 1994, quando si definì la nuova “geografia politica”, a seguito della dissoluzione del blocco sovietico, aveva accettato i nuovi confini dell’Ucraina compresa la penisola di Crimea.

Tornando alla dipendenza dell’Europa dal gas russo, il premier polacco Donald Tusk, è stato molto chiaro e ha parlato di porre fine al “ricatto” energetico.
La politica energetica europea deve essere ridiscussa alla luce di quanto successo in Ucraina. Abbiamo detto che le imprese dell’Ue dovrebbero negoziare il prezzo del gas in blocco. Nessun fornitore, nemmeno la Russia, potrebbe avere la meglio sulla forza negoziale di un cliente grande come la Ue. Dobbiamo uscire dalla logica “commerciale”, per cui ogni singolo Stato o impresa tratta il prezzo della fornitura di gas. La capacità di rifornirsi in modo sicuro è oggi la condizione necessaria per garantire la piena sovranità politica dell’Europa nel suo complesso e per ogni singolo Stato che ne fa parte. In Polonia abbiamo adottato misure e investimenti per 12,5 miliardi di euro (60 mld di zloty) entro il 2020 per incoraggiare l’esplorazione di shale gas, detassando in modo significativo tali esplorazioni per le compagnie locali ed estere. Le riserve polacche sono stimate tra i 350 e i 2 mila miliardi di metri cubi. Tale detassazione sarà in vigore fino al 2020 e successivamente le imposte non supereranno il 40% degli utili.

A maggio ci saranno le elezioni europee, il dibattito sulla moneta unica è molto forte. I movimenti antieuropei e anti-euro sono in crescita esponenziale anche a seguito della crisi che ha colpito alcuni Paesi come l’Italia, la Grecia, la Spagna e la Francia. Cosa pensate di fare, entrerete nella moneta unica?
Nella classe politica dirigente oggi in Polonia si pensa che entrare nella moneta unica è fondamentale per una ragione politica molto semplice. Noi pensiamo che la futura Europa si formerà attorno ai Paesi che oggi fanno parte dell’euro. E se noi non siamo coinvolti in questo processo inevitabilmente saremo emarginati e questo non ce lo possiamo permettere. Ci sono anche delle ragioni economiche molto importanti come il costo del denaro per le imprese o il costo dei rischi del cambio. Intanto da noi ci vorrebbe una modifica costituzionale, cosa non proprio semplice. In più gli effetti della crisi dell’euro sono sentiti dall’opinione pubblica. Il nostro maggior partito di opposizione, Pis il partito conservatore “Legge e Giustizia”, è cauto sulla vicina prospettiva dell’entrata di Polonia nella zona euro. Nel 2015 ci saranno le elezioni politiche in Polonia, non credo che riusciremo per quella data ad adottare la moneta unica, ma la prospettiva è quella.

I rapporti politici ed economici con l’Italia?
Molto buoni. Politicamente l’Italia ha sempre avuto un atteggiamento di apertura all’ingresso di nuovi Paesi nella comunità europea e quando toccò alla Polonia gli italiani ci aiutarono molto. L’interscambio economico tra i nostri due Paesi è di circa 15 miliardi di euro, con un surplus a favore dell’Italia di oltre un miliardo di euro. Sono tantissime le imprese italiane presenti in Polonia e il “sentimento” che raccolgo dai miei incontri con gli imprenditori è assolutamente positivo. Mi consenta di sfatare un mito. Si pensa che le imprese investono in Polonia per il basso costo del lavoro. Non è così, noi abbiamo fatto dei cambiamenti fondamentali negli ultimi 25 anni a costo di molti sacrifici per il nostro popolo. Per le imprese è importante il “contesto economico” del Paese in cui si intende investire. Penso alla fiscalità, al sistema giudiziario, alla certezza del diritto e delle regole che non possono essere cambiate a partita iniziata, alla burocrazia. Ecco da noi queste cose sono garantite, se poi ci si aggiunge la capacità e la voglia di lavoro dei polacchi. Da noi il lavoro è un dono, un privilegio, un polacco è contento quando può lavorare e si sente partecipe dei destini dell’azienda per cui lavora.

Versione integrale di un’intervista realizzata dal giornalista e scrittore Bruno Chiavazzo, pubblicata sul mensile Formiche


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