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Come donare (non solo) un sorriso. Reportage da Cotonou (Benin)

E la prima cosa che ti colpisce allo stomaco è il silenzio. Il silenzio della notte senza il rumore di nessuna automobile, senza nessuna voce. Di giorno le persone non parlano. Parlano gli oggetti: il rumore della suoneria di un vecchissimo modello di telefono, il ronzio delle pale di un ventilatore affannato, la televisione nella hall in una lingua che ignoro, il gorgoglio dell’acqua in un bidone. Parlano le migliaia di moto sulla strada, un fiume in piena che trasporta persone e cose.

Perché questo Paese come tanti altri in Africa è indietro di moltissimi anni? Qui ci sono i telefonini, internet, supermercati con gli stessi prodotti che usiamo noi, venduti però a prezzi esorbitanti. Ma il progresso è ancora lontano dall’arrivare, almeno per la maggior parte della popolazione. Eppure davvero tutti sono determinati a farcela: le strade sono un enorme cantiere, negozi che aprono, si intravedono bar e luoghi di incontro. Le bandiere nazionali sono ovunque e anche nei vestiti vengono ripresi gli stessi colori. Eppure Coutonu è una città in corsa, a testa bassa sull’obiettivo di crescere. C’è l’enorme contraddizione di strade e persone in giacca e cravatta ed altre scalze e in abiti tipici che lavorano negli stessi uffici. La città ci si spalanca davanti, le case basse, piccole, lamiera e cemento, vimini, mucchi di terra e pietre.

Siamo arrivati all’ospedale, il ministero della Sanità ne ha scelto uno in un villaggio distante dal centro della città, l’hanno detto alla TV che sarebbero arrivati i medici di Emergenza Sorrisi e le persone sono arrivate da dovunque, alcuni hanno impiegato 3 giorni di viaggio a piedi.

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Il Benin ha gente fiera, donne bellissime, uomini con spalle e sorrisi enormi. Ed ora sono qui, hanno portato i loro figli, li tengono stretti addosso, alcuni coprono il loro viso per pudore di occhi sconosciuti.

Arriviamo e siamo accolti dalle autorità e dai dottori che gestiscono l’ospedale, seguiranno la missione per imparare ad operare anche loro, già fra due giorni potranno iniziare gli interventi sui primi pazienti.

Ci sono anche adulti che necessitano di cure ma la maggior parte sono bambini, aspettano in silenzio, c’è molto caldo, mosche, sole, terra, cattivo odore eppure nessuno fiata, tutti aspettano il proprio turno, I medici aprono le valigie e allestiscono una sala operatoria itinerante, iniziano le visite. Sfilano lenti, ognuno con una storia, hanno paura ma hanno tanta fiducia e speranza. Non posso fare nulla se non tradurre quei pochi che parlano francese, per gli altri i medici sono abituati con il linguaggio dei gesti, la lingua universale di tutti gli uomini quando devono aiutarsi.

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Vengono programmate le operazioni per tutta la settimana, non ci sono i letti per tutti, ci sono stuoie e piccole cucine da campo, è possibile prendere dell’acqua ma solo due bottiglie per ognuno. Il cibo ognuno l’ha portato con sé, riso, frutta, latte in polvere, ognuno divide quello che ha con gli altri. Il contatto fisico è naturale e spontaneo, le mamme mi danno i loro bambini, loro si lasciano prendere senza piangere. Li abbraccio, tocco quei volti sfigurati, le manine strette. Parlo nella mia lingua che ovviamente loro non comprendono, dico che andrà tutto bene anche se non so se è vero. Molti per essere operati dovranno venire in Italia, qui è impossibile.

Leggo la rassegna stampa, Papa Francesco stamattina ha detto che dobbiamo lasciare che la nostra vita superficiale venga scossa… Lui che la mia l’ha scossa a tal punto da sentire il bisogno di fare qualcosa per gli altri…

Sono qui da poco ma dentro inizio a sentire la forza di qualcosa che cede, quel muro forse naturale che usano gli uomini per non lasciarsi coinvolgere dalle cose che distolgono dal perseguimento dei loro obiettivi. Io che mi fermo poco. Io che mi sento al sicuro dopo aver regalato qualche ora del mio tempo. Io che a volte mi lascio vivere. Io che ormai lo so che dopo questo difficilmente si torna indietro.

I medici lavorano, siamo già alla terza operazione, guardo le foto che ho scattato come se fossero immagini di altre persone. Il telefono continua a squillare, non ho risposto a nessuno. E’ un momento mio, il resto può aspettare.

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