A partire da queste misure, possiamo proporre alcune rapide note di commento al quadro macroeconomico proposto dal Def. Innanzitutto, si deve guardare con attenzione al fatto che il Def propone una fase di rafforzamento della crescita, soprattutto nella fase finale del periodo di programmazione, quando la variazione del Pil è attesa portarsi su tassi appena inferiori al 2 per cento. Questi ritmi di crescita rappresentano un risultato non eccezionale in assoluto, ma che certamente configurerebbe una sorta di discontinuità considerando che l’Italia non raggiunge una crescita media su questi ritmi dall’inizio degli anni duemila.
Tale valutazione si discosta anche dalle valutazioni dei principali centri di previsione italiani e internazionali. Il Def ripropone, come già fatto nella nota di aggiornamento di settembre, un confronto fra le stime di crescita del Governo e quelle di altri centri. Come già avevamo osservato in quell’occasione, è quanto meno sorprendente che il confronto avvenga solo per il primo biennio di previsione (quando il Def propone stime non distanti dalla media dei previsori italiani e internazionali) e non per il periodo successivo, quando i numeri del Def si caratterizzano per un discreto grado di ottimismo, sia rispetto alle previsioni in circolazione che, soprattutto, alle tendenze del passato. Un aspetto del quadro macro del
Def è che, nonostante lo scenario sia di ripresa dell’economia, si assume comunque che i tassi d’interesse siano su livelli bassissimi per un periodo molto esteso. I tassi a breve europei salgono sopra il 2 per cento solo nel 2018, quelli a lunga restano intorno al 3.5 per cento. L’ipotesi di per sé non è scorretta visto che si tratta di un’assunzione di tipo tecnico legata al livelli dei tassi di mercato. Il punto è che i tassi di mercato attualmente esprimono uno scenario con ampi rischi, specie dopo la posizione della Bce su QE.
Il rischio è quindi quello di avere costruito un quadro in cui da una parte si ipotizza un’economia in ripresa, e dall’altra di avere assunto un livello dei tassi d’interesse da recessione.
Su questo punto poi si innesta anche il tema dell’inflazione. I tassi d’interesse sono molto
bassi perché di fatto lo scenario sconta rischi di un’inflazione molto bassa nei prossimi
anni. Nello scenario del Def la dinamica del deflatore del Pil si porta dal 2016 su un ritmo dell’1.5 per cento all’anno. Ricordiamo che negli scorsi quattro anni (2010-2013) la crescita del deflatore del Pil è stata dell’1.2 per cento, ma prevalentemente per effetto delle spinte legate agli incrementi della fiscalità indiretta.
Al netto di questa componente la dinamica è stata pari allo 0.7 per cento. Non
assumendo il Def nuovi aumenti delle imposte indirette, è palese il rischio che la crescita del
deflatore possa essere inferiore alle ipotesi del Governo. Questo punto è contraddittorio anche perché nel Def la dinamica salariale è molto bassa. La crescita del costo del lavoro è all’1.3 per cento, quella del Clup appena dello 0.5. Una dinamica del defl atore del Pil all’1.5 per cento con un Clup allo 0.5 comporta che di fatto di tutta l’inflazione si appropriano i profitti delle imprese. Un boom dei profitti così marcato è di entità clamorosa, e non appare credibile. D’altra parte, la dinamica della produttività del DEF appare più che altro un wishful thinking anche se nel documento si argomenta come tale assunzione sia pienamente motivata dalle riforme strutturali degli anni scorsi.
Alla luce di questa breve riflessione, i numeri del Def restituiscono l’immagine di un’economia che tenderà a rafforzarsi progressivamente nei prossimi anni, sino a chiudere i divari, di crescita e tassi di interesse, rispetto al resto d’Europa. Si rappresenta quindi una evidente discontinuità nelle tendenze dell’economia rispetto al passato, anche se vi è un’evidente continuità con la rappresentazione delle prospettive proposta in altri documenti programmatici.