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Eni, Enel e Terna. I conti in tasca a Scaroni, Conti e Cattaneo

Grazie all’autorizzazione dell’autore, pubblichiamo un articolo di Massimo Mucchetti uscito sul quotidiano L’Unità

Mentre il governo ancora gli stipendi più alti dei manager della Pubblica amministrazione a quello del primo presidente della Corte di Cassazione, 331 mila euro lordi l’anno, la Commissione Industria del Senato accende un faro sulla crescente sproporzione tra le remunerazioni dei capi azienda di Eni, Enel e Terna e quelle dei dipendenti e sull’inesistenza di alcuna correlazione tra le top compensation e i risultati, specialmente nei casi di Eni ed Enel, diverso il caso di Terna.

Nei loro nove anni alla guida dei due colossi, Paolo Scaroni e Fulvio Conti hanno preso e maturato rispettivamente 45 e 35 milioni di euro. In otto anni e mezzo a Terna, Flavio Cattaneo ne ha presi e maturati 23. Questi dati sono la somma delle parti fisse e variabili delle retribuzioni, di stock option e stock grant, di long term incentive e dei trattamenti di fine rapporto. Non si tratta di una somma arbitraria.

La prevede il Dodd Frank Act americano. Dal primo anno paragonabile alla fine dei mandati, spalmando nel tempo i trattamenti di fine rapporto e le stock option, Scaroni ha migliorato i suoi personali ricavi del 188% contro un incremento del costo del lavoro medio pro capite all’Eni del 30%; Conti ha migliorato del 63% contro un costo del lavoro salito del 49% nel gruppo Enel; Cattaneo ha fatto un balzo del 142% contro una risalita del dipendente medio pari al 23% a Terna.

Diverso il caso di Finmeccanica, dove il chief executive officer è in carica da un anno soltanto e nulla ha voluto fosse aggiunto al precedente stipendio da direttore generale. Alla fine della corsa all’Eni il big boss prende 73 volte il dipendente medio, 62 volte all’Enel, 47 a Terna e 19 a Finmeccanica. Va bene una tale sperequazione? La risposta è no. Ma i rimedi possono essere peggiori del male se si cade preda del populismo. Le aziende come la pubblica amministrazione hanno comunque bisogno dei migliori.

Evocare Adriano Olivetti, come adesso usa nel PD, quell’Adriano secondo il quale la paga del più alto in grado non dovrebbe superare per più’ di 10 volte il salario operaio, va bene in tanto in quanto attribuisce una spinta egualitaria di fonte capitalistica al pensiero unico secondo il quale non ci sarebbe altro limite alla paga del capo di quello eventualmente posto dalla Borsa. Ma se il rapporto uno a dieci diventa un dogma rischiamo le beffe della storia.
Negli anni del boom economico, ossia durante l’epoca di Adriano, il rapporto tra la top compensation e il salario operaio era certo basso, ma al grande dirigente era consentito di arrangiarsi con i fornitori pretendo tangenti o cointeressenze.

Se Cesare Romiti avesse voglia di raccontare quali intrecci trovò nella Fiat degli anni Settanta, ne ascolteremmo delle belle. In seguito, con la centralizzazione delle tesorerie aziendali e degli uffici acquisti, i magazzini snelli invece che pletorici, l’arte di arrangiarsi si fece più sofisticata. Si poteva apparire onesti facendo insider trading ovvero facendosi attribuire schemi retributivi legati a indicatori finanziari variamente convenienti. Gli obblighi informativi imposti dalle Autorità di regolazione delle Borse hanno reso in parte trasparenti tali pratiche.

Ma la cosa non ha destato subito nell’opinione pubblica lo scandalo che desta oggi. Fino al crac Lehman la narrazione prevalente giustificava le remunerazioni stellari con la meritocrazia e il mercato senza mai domandarsi quali fondamenti economici ed etici avesse quella meritocrazia (premiamo gli spacciatori di derivati? i tagliatori di teste?) e come si formasse quel mercato (le interlocking directorates, diciamo le consorterie manageriali nei consigli, sono fiorite proprio con il capitalismo manageriale americano).

Dopo il crac Lehman l’opinione pubblica ha intuito l’inganno e, con la lunga recessione, ha pure avvertito quanto fosse illusoria la speranza di calcare le orme dei big boss. Fermandosi l’ascensore sociale, franando il welfare, e’ dilagata la sfiducia e divampata l’invidia sociale. Chi sta meglio di te ti sta comunque rubando qualcosa. Non può non essere un raccomandato. All’orgia della sedicente meritocrazia della disuguaglianza e’ seguito il disconoscimento di qualsiasi merito nel nome di un egualitarismo pauperista.

Seguendo l’onda si possono anche vincere le elezioni, ma si riesce poi a governare il Paese? Si riesce a stare nella vita reale per riformarla o ci si astrae nella sacra rappresentazione dei talk show?
Imporre tagli lineari – dove prendo, prendo – alle remunerazioni più elevate della pubblica amministrazione può certamente soddisfare la sete di vendetta sociale contro chi si ritiene inefficiente e garantito laddove, fuori dallo Stato, dominano la selezione della specie e l’incertezza del futuro. Ma poi?

Se la distanza retributiva tra pubblico e privato diventa troppo alta e, nel frattempo, l’impiego pubblico perde sicurezza, perché mai un giovane capace dovrebbe entrare nella pubblica amministrazione? Perché dovrebbe fare il dirigente tecnico di un comune invece che di un palazzinaro? O il responsabile legale di una Regione invece che il partner in uno studio associato? Se c’è un’esigenza di solidarietà tra chi più ha e chi meno ha,e personalmente credo che ci sia, allora si chieda a tutti di contribuire.

Se nelle dirigenze pubbliche non mancano incompetenti e imboscati, la scommessa non è ammazzare tutti ma colpire chi se lo merita. La strage degli innocenti non giova all’efficienza della macchina pubblica. Indicare come tetto la retribuzione del presidente della Repubblica è fuorviante. Se è vero che, come avverte il premier Renzi, si fa politica per passione e, aggiungo io, si servono le istituzioni per spirito repubblicano, dunque senza guardare al soldo, è altrettanto vero che si lavora per il salario. Diversamente, si coltivano hobby.

E allora la retribuzione, comunque organizzata, remunera la competenza, la fatica, l’impegno, la responsabilità e anche la rarità di talune expertise. Ecco perché, nei giorni scorsi, ho mostrato piena comprensione per la reazione di Mauro Moretti, il risanatore dei conti della Fs, di fronte a chi pretendeva di dimezzare le paghe di tutta la sua prima linea dirigenziale. Ed ecco perché trovo beffardo che l’unico a essersi visto tagliare la busta paga tra i grandi manager pubblici sia quel Domenico Arcuri che dal pasticcio immangiabile di Sviluppo Italia ha tirato fuori un’Invitalia che ha ora un futuro importante davanti a sé.

Detto questo, che senso ha lasciar fare al mercato, e cioè alle consorterie manageriali, nelle società controllate dallo Stato ma quotate in Borsa o comunque emittenti obbligazioni negoziate sui mercati regolamentati?
Nel selezionare i futuri capi azienda di Eni, Enel, Terna, Finmeccanica e Poste, il governo potrà inserire nei mandati un’informale clausola di sobrietà e pretendere l’impegno a legare la crescita delle remunerazioni dei generali a quelle dei sottufficiali e della truppa. Sobrietà vuol dire ben di più di quanto prende Napolitano ma molto meno di quanto prende uno Scaroni, e comunque meglio legato ai risultati reali.

Legare i quantum del vertice a quello della base ricostruisce le basi di una condivisione del futuro. Obiettano gli amici del giaguaro: ma che cos’è questo dirigismo? Risposta: carissimi, nel senso di costosi, se perfino nella City le cifre vengono sottoposte al voto dell’assemblea dei soci, e non ai soli consigli, perché mai da noi il governo laddove è azionista dovrebbe tagliarsi la lingua per lasciare ai banchieri d’affari e ai gestori di patrimoni amici dei manager il monopolio della parola? Se poi all’Eni o all’Enel i soci privati formeranno un gruppo con una partecipazione globale superiore a quella del Tesoro, amen. Ma niente regali anticipati.

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