Il dato che emerge con maggiore rilievo dai sondaggi politici delle ultime settimane prima delle europee di fine maggio è l’enorme numero di indecisi. Quella degli indecisi è una forchetta che a seconda delle rilevazioni tocca il 40% degli aventi il diritto al voto, ed è una categoria che non fa solo gola alle forze politiche nel loro sforzo di “convertire” indecisi in voti alle europee. Quello che per i politici è un obiettivo, una preda da corteggiare e sedurre, per altri è un campanello di allarme. E’ il caso della comunità degli analisti di rischio politico, che al dato degli indecisi – e, tra questi, a quello degli inferociti – associa gravi rischi per la tenuta sociale.
Alle politiche del febbraio 2013, il fronte degli indignados italiani registrò un massiccio incremento, e non si limitò allo sbarco in forze dei grillini nel Parlamento. Degli indignados, infatti, il M5S con il suo 25% di voti non è che il volto istituzionalizzato, quello che esprime la propria protesta all’interno delle istituzioni in una originale sintesi di “rottura” e “continuità”. Sarebbe sbagliato, tuttavia, pensare che il M5S esprima la totalità degli indignados italiani, che sono invece un fronte vasto, molto diversificato e con forti probabilità di crescere ancora data la combinazione incandescente tra disoccupazione record e disaffezione dalla politica.
Tra schede nulle (molti i “vaffa” imbucati nelle urne), bianche e voti al M5S, gli indignados hanno preso quasi il 48% dei voti alle scorse politiche. Oggi il quadro è parzialmente cambiato – Renzi è a capo del PD e del governo, e Berlusconi molto meno vivace che nel febbraio 2013 – ma l’incognita degli indignados rimane in tutta la sua vistosità. Non solo: l’agenda delle elezioni Europee e il fastidio crescente associato a Bruxelles e Strasburgo non sono che ulteriore benzina sul fuoco dell’antipolitica.
Storicamente in Italia sono sempre esistiti corpi politici capaci di incanalare il dissenso, talora radicale, e evitarne l’espressioni in forme extra-parlamentari. Si pensi al ruolo dei sindacati per lunghi decenni della Prima Repubblica, o a quello della Lega Nord dal 1994 fino all’altroieri: in tutti questi casi era il capo partito o il vertice del sindacato a sondare gli umori della base, e a intervalli regolari sfogare con un inasprimento dei toni o un ruggito di piazza le increspature movimentiste. Un colpo al cerchio e uno alla botta, per conciliare sensibilità diverse a seconda del tornaconto.
Quanto resta, oggi, di questa capacità? Poco, con notevoli rischi sotto il profilo dell’ordine, come dimostrano i tafferugli di sabato scorso a Roma e altri episodi preoccupanti nel resto della Penisola. Di certo, come scriveva questo fine settimana Ugo Bertone su Libero, non è possibile nemmeno un confronto con gli anni ’80 del secolo scorso. Allora le proteste (e gli episodi di violenza, presenti anche se con minore intensità rispetto agli anni ’70) erano rivolte contro obiettivi molto precisi e cadevano nel bel mezzo di una ripresa economica, quando l’Italia era la quarta economia mondiale.
Oggi di ripresa manco l’ombra, e gli obiettivi della rabbia sono poco precisi e dunque poco prevedibili. Un bel guaio.
Francesco Galietti
(Fondatore e CEO di Policy Sonar)