Le elezioni europee del 25 maggio si avvicinano e il cammino delle riforme istituzionali si fa ancora più difficile. Nessun partito vuole concedere agli altri un successo da sbandierare per quella data e, nello stesso tempo, nessuno, salvo Grillo, vuole essere accusato di aver provocato la rottura. Si cercano mediazioni che, per utilizzare l’inelegante frasario del presidente del Consiglio, non facciano perdere la faccia a chi ha dichiarato di mettercela fidando nella riuscita dell’impresa.
La mediazione è coessenziale alla politica, ma una mediazione ad ogni costo può dare esiti disastrosi se vengono assemblati pezzi che non possono stare insieme. Nella riforma del bicameralismo si deve procedere con la consapevolezza che vi è una logica interna alle istituzioni e che forzarla oltre un certo limite può produrre un assetto più sbilanciato di quello attuale.
Le seconde Camere sono storicamente nate per assolvere a diverse funzioni: la rappresentanza di ceti sociali diversi o di differenti categorie produttive, la partecipazione degli enti territoriali che compongono l’unità statale, un frazionamento del potere e una maggiore ponderazione delle decisioni. Così se si vuole riformare è necessario aver chiaro e chiarire ai cittadini a che cosa dovrà servire la seconda, rinnovata assemblea. Non si può riformare solo per risparmiare perché allora tanto vale optare per il monocameralismo come hanno fatto altri paesi democratici. La formula “un Senato a costo zero” pur così attrattiva elettoralmente fa correre a Renzi il rischio di finire in un vicolo cieco. Per risparmiare si può benissimo diminuire il numero dei deputati. Il risparmio non definisce il ruolo del Senato nel sistema istituzionale.
Fare della nostra seconda Camera un’assemblea di rappresentanza e di partecipazione degli enti territoriali è una scelta possibile e coerente con il principio autonomistico stabilito dall’articolo 5 della Costituzione. Ma se questa è la scelta cosa c’entrano i 21 senatori di nomina presidenziale, tanto simili agli attuali senatori a vita anche se resteranno in carica solo per qualche anno? Una simile previsione risponde alla logica, propria della Camera dei Lords, di coinvolgere le eccellenze del paese. Una logica che non ha nulla a che fare con gli interessi di regioni e comuni. Il compromesso non può essere la riduzione del numero dei senatori nominati come si è letto su qualche retroscena giornalistico.
Quanto a quello che appare al momento il punto di maggior frizione, e cioè la formazione del Senato (mediante elezioni popolari, con elezione di secondo grado da parte dei consigli regionali e di rappresentanti dei comuni, previsione di membri di diritto quali i presidenti delle regioni) non si può trascurare che il metodo di formazione e le funzioni sono strettamente correlate. Si condizionano a vicenda. Senza entrare in eccessivi dettagli, è evidente che ad un Senato non eletto appare problematico attribuire compiti troppo estesi. Ciò può avvenire in uno Stato pienamente federale come la Germania dove il Bundesrat ha ampi poteri legislativi, non in Italia che non è una federazione. Sotto questo profilo il disegno di legge del Governo ha una sua coerenza. Per altro verso, non si può pensare di far eleggere dal popolo i senatori e poi tenerli a palazzo Madama a non far nulla. Si tratta di ponderare i due aspetti del problema per trovare una soluzione equilibrata che produca un Senato funzionale agli obiettivi istituzionali che ci si prefigge.
Nessuna fretta preelettorale e nessuna mediazione pasticciata. Se il clima è oggi teso per la scadenza del 25 maggio si può anche rinviare a quando la geografia politica sarà stata ridisegnata dal risultato delle elezioni. E’ necessario superare il bicameralismo paritario, ma quel che conta è che si facciano scelte non condizionate da situazioni troppo contingenti e con l’ambizione di essere destinate a durare. Abbiamo atteso trent’anni e si può aspettare ancora qualche mese. Purché questa volta si arrivi in fondo.