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Il Def e i paradossi del Pil

Domani il governo presenterà il Def (la vecchia Legge finanziaria). Ce la faranno Matteo Renzi e Pier Carlo Padoan a rispettare i vincoli europei sul deficit? Ce la faranno, soprattutto, a dare una scossa al Pil, ovvero a quello che è universalmente ritenuto il simbolo stenografico della stazza dell’economia?

Vedremo. Vediamone però qualche aspetto. L’economista bielorusso Simon Kutznets (1901-1985), ideatore del Pil come lo conosciamo oggi, già nel 1934 avvertiva il Congresso degli Stati Uniti che il benessere di un Paese difficilmente può essere dedotto solo dalla misurazione del suo reddito nazionale. Ad esempio, esso non considerava attività svolte al di fuori del mercato (come il volontariato e il lavoro domestico) e le esternalità negative – sociali e ambientali – del sistema produttivo.

Soltanto dal 1990, tuttavia, ipotesi alternative di benessere hanno cominciato a giocare un ruolo rilevante nel dibattito politico. Merito anche dell’indice di sviluppo umano (Isu), elaborato dall’ex ministro delle Finanze pakistano Mahbub ul Haq e adottato dall’Onu, che al Pil affianca altre grandezze come speranza di vita, tassi d’inquinamento e di scolarità, mortalità infantile. Per non parlare dell’indice di “felicità nazionale lorda”, un concetto (un po’ stravagante) inventato dal sovrano del Bhutan nel 1972, che quantifica le performance delle comunità fedeli ai principi spirituali del buddismo.

L’ultimo tentativo di “riformare” il Pil che ha catturato l’attenzione dei media è stato quello del Presidente francese Nicolas Sarkozy, che nel 2009 lo affidò – con scarsi risultati – ai premi Nobel Amartya Sen e Joseph Stiglitz. Forse pochi ricordano, invece, che quindici anni fa – su impulso del patron di Esselunga Bernardo Caprotti – si costituì un gruppo di ricerca (coordinato da Paolo Savona) per analizzare il nostro Pil voce per voce, per poi  paragonarlo a quello di Francia, Spagna, Olanda e Inghilterra.

Le sue conclusioni furono sorprendenti: in termini comparativi, in Italia si viveva meglio di quanto raccontato dai numeri ufficiali. Infatti, le inefficienze pubbliche e private (burocrazia, trasporti, sanità, corruzione, costi energetici) erano registrate e valevano tra il 14 e il 26 per cento del valore totale dei nostri beni e servizi. Al contrario, non erano computati come reddito: lavoro casalingo, non profit, attività sommerse e illegali, pari a circa la sua metà.

Da allora le cose sono sicuramente cambiate, ma il reddito da prostituzione in Olanda e – in certa quota parte – l’economia domestica negli Usa vengono ancora calcolati nel prodotto interno lordo, diversamente che da noi. Sono i paradossi del Pil.

 

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