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Il dì del dieci di aprile

Mentre scrivo non so quale decisione verrà presa dai giudici di sorveglianza di Milano in merito alla sorte di Silvio Berlusconi. Quale che essa sia, è un ulteriore mattone destinato ad erigere il muro dell’evidenza: la fine politica del Cavaliere, tante volte evocata, auspicata o temuta, è giunta. Se ne sono accorti i sondaggisti, che registrano con qualche ingiustificato stupore il sorpasso dei grillini su Forza Italia; se ne sono accorti in fuorionda Toti e la Gelmini; se ne sono accorti con malcelato imbarazzo i candidati forzisti alle Europee, che temono l’impazzimento del leader con relativa e parossistica svolta anti-euro. Insomma, lo sanno tutti tranne l’interessato, che continua a dare ordini a divisioni inesistenti come Hitler nel bunker.

In qualsiasi parte del mondo non sarebbe un dramma: un uomo anziano e piagato, che ha infranto tutti i record di longevità politica del mondo occidentale, deve prendersela solo con la propria insipienza per non avere avuto un congedo con tutti gli onori ed essersi invece ridotto ad un patetico calciatore imbrocchito che non si rassegna ad appendere le scarpe al chiodo. Se la Prima Repubblica nasce nel fuoco e nella passione del diciotto aprile, alla Seconda tocca il malinconico declino del dieci. Questione di date.

È chiaro che la vulgata consolatoria dell’abbraccio mortale con Renzi che avrebbe danneggiato Berlusconi è solo l’ennesima acrobazia per fuggire dalla realtà: Renzi trionfa non perché stia facendo o dicendo cose straordinarie, ma perché dice e fa qualcosa. Caratteristica che al centrodestra italiano manca da un bel pezzo. A parte qualche intemerata della Santanché, qualche tetro sarcasmo di Brunetta e qualche giaculatoria rituale sulla magistratura persecutrice, qualcuno saprebbe indicare in che consista la proposta politica di Forza Italia? All’opposizione ma non tanto, in maggioranza ma non sempre; c’è quasi più senso negli improvvisati berci antieuropei di Fratelli d’Italia che in questa morta gora.

Con gli azzurri intenti ad allestire il coro delle prefiche, i diversamente berlusconiani e i frammenti dell’esploso tentativo montiano protesi a guadagnarsi un cadreghino di testimonianza a Strasburgo, è del tutto evidente che l’unica dialettica bipolare di questo Paese è quella fra Renzi e Grillo. Non fosse per il colorito e tumultuante magma del Pd, le pagine di politica interna dei quotidiani potrebbero limitarsi ad un paio d’articoli al massimo.

Questo benché non ci sia alcuno smottamento sociologico o antropologico verso la sinistra: l’Italia è e resta un Paese di moderati, allergici alle avventure, profondamente anticomunisti; ma chi impugna oggi questa bandiera? Non si tratta, è chiaro, di riprendere l’anticomunismo da operetta degli anni ruggenti del Cav. Si tratta piuttosto di combattere una battaglia valoriale fra merito e assistenzialismo parassitario, di ribaltare la prospettiva dei rapporti fra il cittadino e lo Stato, di ripensare e rinsaldare lo spirito dell’europeismo.

Valori, questi sì, di destra, che contrastano e contendono le impostazioni peggiori, le incrostazioni e i limiti storici della sinistra, post comunista che sia. Renzi, sia o meno sincero, sia o meno credibile, sa che questi limiti sono i suoi primi nemici. Può farcela a superarli? Personalmente ne dubito, ma vedremo. Quel che è sicuro è che Renzi non può menar vanto di avere sconfitto Berlusconi. Non c’è gloria nel trionfare su un morto. E ce n’è ancora meno nel costringerlo ad una impietosa agonia.

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