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Il duello fra Tremonti e Bini Smaghi a colpi di libri

Pubblichiamo grazie all’autorizzazione di Class Editori un articolo di Tino Oldani uscito sul quotidiano Italia Oggi diretto da Pierluigi Magnaschi.

Fateci caso: è dal novembre 2011, quando entrò in crisi il governo di Silvio Berlusconi, che l’Italia è governata da premier non eletti. Tra il prima (Berlusconi) e il dopo (Mario Monti, Enrico Letta, Matteo Renzi), il fatto politico più rilevante è stata la famosa lettera della Bce (Banca centrale europea), che il 5 agosto 2011 chiese al governo italiano un impegno straordinario per fare fronte alla crescente sfiducia dei mercati nei confronti dei titoli del debito pubblico italiano. In sintesi, la Bce chiese, anzi impose a Berlusconi, non solo di varare con urgenza alcune riforme, ma addirittura di anticipare al 2013 il pareggio del bilancio dello Stato, che fino ad allora era fissato per il 2014 ed era considerato un traguardo difficile da raggiungere. Così difficile che neppure ora ci si riesce.

Tuttavia l’allora ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, predispose in pochi giorni un decreto «lacrime e sangue» e il Parlamento fu riaperto in agosto per approvarlo. Ma le divisioni all’interno della maggioranza impedirono di raggiungere gli obiettivi fissati, lo spread sui Btp arrivò a 550 punti, e il governo andò in crisi: l’8 novembre la Camera negò la fiducia sul rendiconto e Berlusconi si recò al Quirinale per le dimissioni. Il giorno dopo, Monti fu nominato senatore a vita da Giorgio Napolitano e il 16 novembre, a tempo di record, assunse la guida del nuovo esecutivo. Il programma che annunciò in Parlamento era, in pratica, quello imposto dalla Bce con la lettera del 5 agosto, firmata sia dal presidente uscente Jean Claude Trichet che quello appena nominato, Mario Draghi, con un surplus di tasse che aggravò la crisi economica e portò l’Italia in recessione.

Non è dunque un caso se da quella lettera della Bce in poi, è fortemente cresciuto in Italia un sentimento euro-scettico, con punte di antieuropeismo che spingono alcune forze politiche a invocare l’uscita dall’euro. Ma è altrettanto vero che non tutto è stato chiarito sull’origine di quella lettera. Anzi, basta mettere a confronto i libri scritti da due protagonisti di allora e pubblicati di recente, per avere versioni completamente diverse, per non dire opposte, come in un giallo irrisolto. Mi riferisco ai saggi di Giulio Tremonti («Verità e bugie», Mondadori) e di Lorenzo Bini Smaghi («33 false verità sull’Europa»; il Mulino). Quest’ultimo era allora membro del comitato esecutivo della Bce in rappresentanza dell’Italia, dunque un testimone diretto, visto che rimase in carica fino al 10 novembre 2011, quando si dimise per fare posto a un rappresentante della Francia nel board della Bce, mentre l’Italia ne aveva ben due, dopo la nomina di Mario Draghi al vertice.

La versione di Bini Smaghi, che si dimise controvoglia ed è poi diventato presidente della Snam, è quanto meno riduttiva. Quella della Bce, sostiene, era «una lettera inviata confidenzialmente» al governo italiano, e rientrava «nella prassi in uso nei Paesi avanzati» tra banche centrali e governi. Più avanti: «In Italia è diffusa l’opinione che la lettera della Bce sia responsabile delle politiche di austerità messe in atto nel 2011 e nell’anno successivo dal governo Monti. Il punto principale di quella missiva era invece la richiesta di riforme strutturali, che la Bce – e gli investitori internazionali – consideravano ancor più necessarie delle misure fiscali al fine di assicurare la sostenibilità delle finanze pubbliche». Riforme che riguardavano «le liberalizzazioni delle professioni e dei servizi pubblici locali, le privatizzazioni, la riforma del mercato del lavoro e della pubblica amministrazione», più l’anticipo di un anno del pareggio di bilancio e il «completamento della riforma pensionistica». Dunque, a sentire Bini Smaghi, una missiva del tutto normale.

Tremonti, invece, definisce la lettera della Bce «un atto indebito e gravissimo, che ha enormemente indebolito il nostro Paese, creando così il presupposto del suo cedimento». Vale a dire, un cedimento (fatto proprio da Monti) alle pretese egemoniche della Germania e della Francia nella conduzione della crisi finanziaria che aveva colpito l’Europa. Per Tremonti i governi di Angela Merkel e di Nicolas Sarkozy miravano a «commissariare» l’Italia tramite la Bce, per costringere il nostro Paese «a pagare il conto dei disastri fatti dagli altri. Il governo italiano allora in carica si opponeva e con forza a tale pretesa, e fu questa la vera ragione dell’attacco al nostro Paese». Non già lo stato dei conti pubblici, che (dice Tremonti) erano a posto, come avevano attestato la Banca d’Italia il 31 maggio e la stessa Merkel il 21 luglio, appena 15 giorni prima della lettera della Bce.

Il motivo dello scontro, spiega l’ex ministro, fu il rifiuto italiano di pagare più del dovuto per salvare le banche tedesche e francesi, che a seguito di speculazioni sbagliate risultavano tra le più esposte in Europa, per centinaia di miliardi. Sul totale delle esposizioni verso i Paesi in crisi (Grecia, Irlanda, Portogallo e Spagna), le banche tedesche si collocavano al 42%, quelle francesi al 32%, mentre l’Italia lo era soltanto per il 5%. Per questo Tremonti comunicò all’allora governatore della Bce, Jean Claude Trichet, che l’Italia avrebbe contribuito al Fondo salva Stati, che in realtà era un salva banche, con il 5 per cento, e non con il 18 per cento, che è la quota azionaria italiana della Bce.

«Al nostro posto, Germania e Francia avrebbero fatto lo stesso» sostiene Tremonti. «E il 18 per cento l’avremmo accettato solo in cambio dell’introduzione degli eurobond». Per tutta risposta, Germania e Francia ordinarono alle loro banche di vendere i titoli di Stato italiani, e diedero così il via alle manovre dei mercati finanziari e all’impennata dello spread che travolsero il governo Berlusconi. «Un colpo di Stato dolce» scrive Tremonti. Dopo di che Monti eseguì alla lettera «i compiti a casa» imposti dalla Merkel. E oggi c’è poco da stupirsi se un’Europa siffatta non convince milioni di elettori.



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