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La crisi e il servizio d’argento

Non c’è oggetto, nelle case degli italiani, in tutte le case, che rappresenta l’ideale borghese più del servizio d’argento. E’ da dodici, talvolta persino più numeroso. Ci sono i piatti, i piattini, le posate, i vassoi, le tazzine e i sotto tazzina. Il servizio d’argento è un esercito con tanto di armatura lucente che sta parcheggiato in una caserma a vetri senza mai essere chiamato a misurare il suo valore. Non conosce lo sferragliare della battaglia, né il sangue. Neanche nella sua versione cinematografica: il succo di pomodoro. In questa attesa infinita, in questo destino che si compie senza azione, due soltanto sono le insidie che lo minacciano: la polvere e il mutar delle mode.

La polvere fu una delle più geniali invenzioni del capitalismo. Dopo la crisi petrolifera degli anni 70, il boom poteva considerarsi finito. La domanda di acquisti di beni andava, va da sé, stimolata. E così ci si inventò la polvere. Le mogli che accompagnavano i mariti (neo-inurbati) dalle campagne alla città furono sedotte dagli strumenti necessari alla pulizia della casa, sempre più efficaci e veloci, che le avrebbero permesso di avere il proprio appartamento residenziale in ordine e il tempo per concedersi qualche ora di shopping tra le vie del centro facilmente raggiungibile con i mezzi pubblici. E tra le mirabolanti invenzioni per le pulizie domestiche ce n’erano di specifici, ovvio, per il servizio d’argento. Ricordo il Sidol. Un oplita, con tanto di tuta verde, di cilindrica possanza che sul pianoro del tavolo del salone avrebbe affrontato l’argentea legione nella battaglia campale per l’eterno splendore.

I servizi d’argento esistono da sempre. Ma, dal dopoguerra in avanti, per via della troppa democrazia che passava attraverso la democratizzazione dei consumi, dovettero diventare accessibili a tutti. Il design aveva il compito di mantenere le distanze di reddito.
I piccolo-borghesi, convinti di essersi finalmente migliorati lasciando la fatica della campagna, alla sera, tornati dai loro impieghi potevano farsi prendere, dal divano del salotto, specie quando non c’era nulla in televisione, dalle cure del sonno riflettendosi nella vetrinetta che proteggeva il sigillo del matrimonio e dell’accasamento urbano.
L’occasione, l’evento in cui quelle stoviglie, diventate icona e spogliate della loro funzionalità, sarebbero potute essere utilizzate non sarebbe mai arrivato. Anche perché gli appartamenti, a differenza della casa in campagna che offriva continui momenti di convivio e comunità, non contenevano che poche persone. Le sedie erano per numero inferiori al servizio. Sic!
Nella ruota della vita di Balzac erano i travolti dalla società. Destinati al ruolo di comparse in Piazza Sennaja.

Tutt’altra storia è quella dei servizi d’argento di fine ottocento. Questi albergavano in case più grandi. Dimore con una storia e un certo passato. Con un’epica, una narrazione completamente diversa. Erano svincolati dalle mode e dalla contemporaneità che diventava contingenza effimera, mero status symbol. Erano servizi al servizio di antichi casati che percorrevano i decenni e le generazioni liofilizzandosi, ovvio, anche loro nel frammentarsi dei rivoli delle discendenze. Ma ogni rivolo aveva ancora una sua certa forza residua. E in quelle case ti poteva capitare di imbatterti in personaggi di tempra salda, di indubbia presenza di spirito. Alcuni di questi avevano una tradizione, socialista ad esempio; un’idea del bello, in quelle stoviglie c’erano impresse le impronte degli avi. Una storia che era memoria collettiva. C’era il senso della famiglia che sapeva e aveva i mezzi per allargare i confini della famiglia a un’intera comunità.

Quando si entra nella casa dei propri genitori dopo tanto tempo, davanti alla vetrinetta che custodisce, sempre al medesimo posto, il servizio d’argento non si ha senso di casa. Perché quelle stoviglie non dicono nulla. Non hanno nessun ricordo appiccicato sopra. Sono fredde, mute. Dei corpi senza vita incapaci di decomporsi. Biologicamente inerti. Che non sono stati abbandonati da un’anima perché un’anima non l’hanno mai avuta. Rappresentano il fallimento di una comunità che nel suo tentativo di organizzare il suo impianto sociale, ha sacrificato lo spirito degli individui al mito del destino unico.
L’amico Riccardo l’altro giorno prende e mi fa: – Una cosa buona comunque i ladri l’hanno fatta. Si sono portati via il servizio d’argento – .

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