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La morte di un boss

Se n’è andato Turiddu Civello. Al processo per usura nel quale era coinvolto, è rimasto ora un solo imputato: il Direttore di Banca complice, secondo l’accusa, assieme all’altro fratello di Turiddu, Giorgio. La giustizia, che non è di questo mondo, segue le sue vie. Giuste, appunto.
La storia di Turiddo Civello, specchiata nei miei ricordi, inizia in quarta elementare quando Giancarlo, mio compagno di banco, già allora formidabile elaboratore di sapide e acute didascalie, mi aveva raccontato questo fatto. La mamma, genovese, sposata con un pozzallese di mare, non essendo avvezza all’utilizzo dei soprannomi del Sud, si era rivolta al fruttivendolo dicendogli: – Quanto fa il tutto signor Ciabatta? -. Ecco. Perché lo chiamavano Tappina, che della ciabatta è la traduzione dialettale. Perché non avevano manco le scarpe quando erano arrivati a Pozzallo i genitori di Salvatore (Turiddu) e di Giorgio e dormivano dentro un’ape. La lapuzza.

Ma da quell’ape costruirono un impero legale e illegale. L’ape generò, il commercio della frutta, il bar, la pasticceria e chissà quante attività illecite. Questo fu.
Ricordo benissimo Giorgio, il fratello minore di Turiddo. Sempre sorridente e gentile con me che, piccolo, acquistavo la frutta e verdura direttamente da lui quando passava vicino casa con il suo camion. Se n’è andato poco tempo fa lui, e credo non avesse neanche sessant’anni. Poco tempo dopo essere finito imputato, nello stesso processo. Una bruttissima vicenda di usura. Reato gravissimo, specie in una piccola comunità. Che colpisce forte, duro, il debitore e la sua famiglia, tutta.
Giorgio girava, ambulante, con un camion pieno di cassette di frutta e ortaggi, servendo in modo capillare ogni via del paese. E la didascalia, qui, è certamente il jingle con cui annunziava la sua presenza e la sua offerta: – Avimu i pira, i puma, i banani (leggera pausa) chiquita – e ancora – i biezzi, i mulunciani, i pummaroro-.
Era inconfondibile.

D’estate, poi, alla spiaggia di Pietrenere, una sorta di Ipanema affidata all’imperscrutabile azione di erosione del mare e delle amministrazioni comunali che si succedevano, quando andavo ancora in spiaggia con mia madre, di fianco capitava di trovare la moglie di Turiddu con i figli. Era una signora dai lineamenti dolcissimi. La ricordo con due occhi nerissimi, velati da una profonda tristezza. Ho provato a scavare nella memoria, ma di questa signora, di questa mamma, non riesco a ricordare altre istantanee. Da quello che ho saputo, pare stia molto male. Dello stesso male che si è portato via il marito. Ecco.

Gli anni passavano. Erano i primi anni di Liceo e, tutte le mattine, prendevo il pullman che da Pozzallo mi portava a Modica, passando giusto da Via Dell’Arno. E una mattina, davanti ai finestrini, a me e agli altri compagni di viaggio passò davanti questa immagine: quella delle vetrine del supermercato di Via dell’Arno in frantumi, probabilmente per via di un’esplosione nella notte. I muri dei balconi soprastanti erano anneriti. Giancarlo, di nuovo lui, che era in pullman con me, fece la didascalia perfetta, meglio del migliore dei cronisti: – E Turiddu scupa- (Turiddo sta passando la scopa).
Già, perché lui Turiddo Civello era proprio lì sul marciapiede a passare la scopa. Sul marciapiede su cui dava il supermercato e il suo bar.

Vennero gli anni del Liceo. E le prime passioni. E lui, sempre lui, Giancarlo frequentò per un certo tempo Linda che di Turiddo era una delle figlie femmine. Fu pure invitato a un pranzo di famiglia una volta. Ma di questo non vi dico perché la narrazione del figlio della giraffa – neanche il più abile di battuta può sottrarsi al nickname – potrebbe competere perfino con il gigante di Mario Puzo.

Io, attraverso il tennis, invece, frequentavo, rigorosamente da fondocampo senza chiudere mai una volee la sorella di Linda, Tamara che giocava a tennis. Era un cuoccio di zucchero. Di una dolcezza infinita e dai modi garbati ed eleganti. Bella, dai lineamenti finissimi, direttamente ereditati dalla mamma, aveva capelli nerissimi e riccissimi. Quando qualche anno dopo impennò, così direbbe l’amico Sipione che da buon cacciatore usava la lingua italiana come il suo canne mozze, diventò certamente una delle più belle ragazze del paese. Una sera, ma siamo ancora in epoca prima dell’impennata, la accompagnai a casa dopo un doppio misto. Ebbi un certo imbarazzo, confesso, nel metter piede in casa sua, ma lei era così garbata che accettai la sua ospitalità. Mi fece accomodare in un ampio salone. Dato che leggevo tanto, fui rapito dall’enorme libreria alla parete e non riuscì a trattenermi dalla curiosità di sapere quali autori avessero incontrato il gusto di una famiglia così chiacchierata. Quando feci per prendere uno dei libri, però, se ne venne tutta la fila. Era un cartonato. Mi prese un colpo. Feci mille pensieri. Il cuore salì in gola. Pensai, per un attimo, che dietro al cartonato ci potesse essere nascosto qualcosa che sarebbe stato meglio non sapere. Nella realtà, invece, a parte quella del cartonato, non ebbi altre sorprese. E come spesso accade, la suggestione è sempre quella indotta da troppa televisione americana.
Quell’estate Tamara m’invitò al suo compleanno. Nessuna scena alla Mario Puzo. Semplicemente il tentativo di vivere con normalità un’adolescenza che portava l’ombra peggiore. Quella che non cambia posizione con il sole.

Le attività di Turiddo crescevano: quelle lecite e quelle illecite. E pare, ma qui siamo come per tutte le storie di paese al gioco dell’oca della notizia che vola di bocca in bocca facendosi legenda, che quando una mattina al Bar di Turiddo si presentarono i carabinieri per una perquisizione e vi trovarono del tritolo, alla domanda dell’appuntato:- Ma che ci fa con questa roba qui? – lui, Turiddu rispose: – Ci riempio i cannoli-.

Con la fine del Liceo, lasciai Pozzallo. E da allora sono passati vent’anni. Quando, durante gli studi, tornavo per le vacanze, capitava che andassi a fare colazione, con tanto di granita, al bar di Turiddu. Con la speranza, che non rivelavo neanche a me stesso, di rincontrare Tamara. Ma capitò assai ancora più di rado del mio rado ritornare.

Di quelle facce responsabili delle peggiori azioni, che facevano male a molte persone, prevale in me la memoria più che la cronaca. Certo, la nostalgia, la scrittura rischia di annacquare il tutto, e distorcere perfino la verità. Farne un’altra storia. Nei paesi, nei piccoli centri del Sud, però, c’è una profonda compenetrazione di vite. Gli umori, i legami di sangue, tutto quello scirocco avvolgono l’intera comunità in un unico grande miraggio. E leggetevi la Camorrista di Francesco Palmieri se non ci credete. Certe facce, anche le meno raccomandabili, in certi pomeriggi d’estate sul deserto desolante delle litoranee del sud sanno di casa. Molto, molto di più del dirimpettaio in una delle città metropolitane. E’ per questo motivo che, al dunque, a prendere le distanze sono sempre i più prossimi.

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