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La riforma del Senato? Parla il prof. Saulle Panizza

La discussione giornalistica e politica di questi ultimi giorni, è dedicata tutta alla riforma del Senato, direi la sua totale trasformazione. In molti hanno espresso dubbi e perplessità su questo passaggio, così, ho chiesto un parere ad un esperto di diritto costituzionale e di Costituzione, Saulle Panizza, professore ordinario di diritto costituzionale presso la facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Pisa. 

In questi giorni si parla della necessità di superare il cosiddetto bicameralismo perfetto? Brevemente, può dirci di cosa si tratta e perché è stato voluto dall’Assemblea Costituente?

Con riguardo alle istituzioni parlamentari, gli ordinamenti adottano in genere o modelli monocamerali o modelli bicamerali. Questi ultimi sono di solito caratterizzati da una differenziazione tra le due camere, in termini di rappresentanza e di funzioni.
Nel caso italiano, invece, la Costituzione ha disegnato un bicameralismo c.d. perfetto o paritario, dove le due camere, pur avendo una serie di differenze (elettorato attivo e passivo, composizione, ecc.), sono dotate delle medesime attribuzioni e svolgono le stesse funzioni. Fu, anche per questo aspetto, una scelta in qualche misura di sintesi e di compromesso tra le diverse posizioni presenti in Assemblea costituente, alcune favorevoli al monocameralismo, altre a un bicameralismo variamente configurato.

La proposta di una seconda camera non elettiva, composta da presidenti di regioni e da sindaci, è coerente con un principio di rappresentanza democratica, specie delle minoranze? Il problema sembra porsi perché, a loro volta, sindaci e presidenti di regione sono espressioni esclusive delle maggioranze. Che cosa ne pensa?

I modelli di bicameralismo differenziato tendono in maniera del tutto naturale ad avere due camere diversamente rappresentative. A una camera rappresentativa dell’intero corpo elettorale si affianca una camera rappresentativa o delle realtà territoriali o di altri interessi.
Detto questo, è da osservare che il disegno di legge costituzionale del Governo finirebbe – se approvato – per modificare in ordine alla rappresentanza il principio storicamente risalente oggi sancito dall’art. 67 della Costituzione (Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato). La rappresentanza della Nazione risulterebbe, infatti, propria dei soli membri della Camera, dal momento che il Senato sarebbe rappresentativo delle istituzioni territoriali.

A chi rispondono, dal punto di vista democratico, i membri non eletti di una seconda camera come quella prospettata?

Non è del tutto chiaro, in effetti, anche perché sul punto il testo del 31 marzo risulta significativamente diverso rispetto alla bozza di meno di tre settimane prima (12 marzo), con riguardo sia alla composizione del Senato delle Autonomie sia alle modalità di scelta e alla durata del mandato dei suoi componenti elettivi.

Esiste davvero la necessità di una simile “riforma” costituzionale del Senato? Per rendere il lavoro parlamentare più rapido, ma senza arretramenti sul piano delle garanzie democratiche, non si potrebbe intervenire piuttosto a livello di regolamenti o, come ha suggerito il Presidente Grasso, ripartire le funzioni?

Credo che valga a questo proposito ciò che può dirsi, a mio giudizio, su molto del dibattito che ormai da più di trent’anni ha avuto ad oggetto le riforme costituzionali. E cioè che molte delle riforme di cui vi è davvero bisogno avrebbero potuto e dovuto essere fatte attraverso leggi ordinarie, riforme dei regolamenti parlamentari, modifiche al sistema dei partiti politici e dei gruppi parlamentari, ecc.
Non credo siano imputabili al bicameralismo perfetto solo effetti negativi e non credo che stiano nel bicameralismo perfetto le radici della gran parte delle disfunzioni del nostro ordinamento.

La democrazia, con le sue istituzioni, ha un costo. La critica dei “costi” della politica come casta non rischia di diventare l’alibi per manomettere gli equilibri costituzionali? Se il problema è quello di ridurre la spesa per il Parlamento, perché non si procede a ridurre i compensi invece che il numero dei parlamentari?

Il tema dei “costi della politica” ha certamente un suo fondamento ed è indubbio che attragga molto e sia di facile presa sull’opinione pubblica.
Concordo sul fatto che il sistema politico e le istituzioni abbiano un costo, che è quello fisiologico della democrazia e delle sue regole, che non può non gravare sui cittadini e in generale sui soggetti dell’ordinamento. Il problema, più che nei costi in astratto, penso sia nel cattivo uso delle risorse pubbliche, nelle inefficienze, negli sprechi, nella mancanza di controlli, ecc. Certamente, nella limitata ottica della riduzione dei costi, altre riforme avrebbero potuto essere ugualmente efficaci e senza determinare un impatto così rilevante (e, ad oggi, ben poco ponderato) sugli equilibri del sistema.

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