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Lode dell’antipatico Galli della Loggia

Diciamoci la verità: Ernesto Galli della Loggia non è simpatico subito. Appare, talora, ed anche più frequentemente che talora, un professorino supponente e sussiegoso, che giudica e manda non senza far ricorso a qualche pregiudizio o preconcetto.

Per noi di destra, poi, l’insopportabilità di della Loggia è resa esponenziale dalla sua pertinace abitudine a dire sul nostro conto una serie di amare verità: sul berlusconismo, sul rapporto distorto che abbiamo con il blocco sociale che ambiamo a rappresentare, sulla nostra adeguatezza a svolgere le funzioni richieste al polo moderato e conservatore (per usare una classificazione novecentesca) in un moderno Paese europeo.

L’editorialista del Corriere della Sera, per questa sua abitudine ad esprimere in modo impietoso ed urtante verità scomode, è stato spesso oggetto di reazioni sopra le righe; e siccome siamo in tempi di decadenza, gli è toccato passare da “intellettuale dei miei stivali” come lo definì Bettino Craxi, agli sbuffi di Gasparri, che col passare del tempo sembra impegnato in misura crescente ad imitare la sua imitazione di Neri Marcoré.

Noi vorremmo invece ringraziarlo, perché ci ricordiamo che è il medico pietoso a fare la piaga cancrenosa; e Galli ci dissuade non solo da un’idea di noi stessi falsamente lusinghiera, ma anche da alcuni comodi alibi. Per esempio ci fa avvertiti che l’accantonamento di Berlusconi, che è certamente la condizione necessaria perché la destra politica italiana ritorni all’onor del mondo, non è condizione sufficiente.

Perché, anche se il Cavaliere stesso ama crederlo, non è la peculiare e irripetibile biografia di Silvio Berlusconi ad aver fatto la storia dell’ultimo ventennio, anche se l’ha segnata, nel bene e nel male, in modo evidente: Berlusconi e il berlusconismo sono anche il portato di un nostro complessivo ritardo culturale e programmatico.

Se è indubbio, infatti, che il centrodestra si costruisceinnanzitutto a partire dall’opposizione alla sinistra, e che questo lo consegna ad una visione inevitabilmente articolata e plurale che non tollera reductio ad unum, è anche vero che questo non è l’alibi con cui restare nell’indistinto e nell’irrisolto.

Le grandi questioni dell’epoca, come si vede, irridono gli steccati e le trincee tradizionali: la distinzione fra lavoro dipendente e lavoro autonomo, crocevia delle contrapposizioni del secondo Novecento, cedono il passo all’urto del lavoro nel suo insieme rispetto al credito e alla rendita; i diritti di libertà e di uguaglianza tradizionalmente intesi devono fare i conti con la valorizzazione delle differenze; l’amor di Patria va a declinarsi nelle nuove dimensioni europee.

Ecco, a questa stregua il panorama del centrodestra è desolante ben al di là delle amare diagnosi di della Loggia. A parte la jacquerie antieuro dei lepenisti de noantri, il maggior partito di questa ipotetica coalizione fa la sua campagna al motto di “meno Europa in Italia e più Italia in Europa”, asserzioni geograficamente temerarie e politicamente insensate, specie se accompagnate dalla richiesta (giusta) di avere nell’euro una moneta “vera”, con la Bce nei panni di Federal Reserve.

Un panorama di confusione mentale che è solo in parte temperato dall’europeismo genuino della lista “centrista”. Il centrodestra ha bisogno innanzitutto di liberarsi da quella peste del linguaggio che è stata caratteristica del berlusconismo: le parole devono tornare a corrispondere a concetti, i concetti a proposte, le proposte ai programmi. Per farlo –ahinoi- non basterà mandare in pensione il Cavaliere. Anche per questo, sia lode agli antipatici come della Loggia.

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