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Zagrebelsky e Rodotà, indignati in servizio permanente effettivo

Grazie all’autorizzazione del gruppo Class editori pubblichiamo il commento di Pierluigi Magnaschi apparso sul quotidiano Italia Oggi

Zagrebelsky, Rodotà (tà), Settis e amici, hanno lanciato alla società intera, il solito, impettito e autocompiaciuto ultimatum. Lo hanno fatto con il ditino alzato e la voce strozzata dall’indignazione. In passato, quando diffondevano i loro orgogliosi papielli veicolati da la Repubblica facevano il botto. Adesso si sono dovuti accontentare del Fatto quotidiano. E questa volta, non certo per colpa del Fatto, che è un giornale fazioso ma con i fiocchi, si sono subito inabissati nel ridicolo quando non (e per loro è molto peggio) nell’indifferenza.

È poi bastato, da parte di uno spirito impertinente, denominarli «professoroni», per farli precipitare in vite come jet colpiti da un missile. La parola «professorone» è sofficemente offensiva. Ma colpisce nel segno perché rivela la natura tipica della loro arroganza. Però, più che a un missile, il termine «professorone» corrisponde a uno spillo. Certo, per abbattere un jet, ci vuole un missile. Ma per tirare giù un pallone gonfiato, basta uno spillo.

I «professoroni», impigriti dalla loro lunga posizione di rendita (che adesso è venuta meno; e che loro credevano che fosse eterna) si sono sempre comportati come delle icone, che parlano ma non rispondono, si esibiscono ma non conoscono. Essi non hanno tenuto conto che le icone sono sempre fragili, soprattutto in un mondo laico, scettico, nichilista. Quel mondo che, a parole, i «professoroni» dicono di condividere. Ma fino a che colpisce gli altri. Adesso che questa società e questa visione del mondo li ha spillati inesorabilmente, i «professoroni» sono rimasti senza parole. Non se l’aspettavano proprio. Se non fossero atei, si lamenterebbero del fatto che «non c’è più religione. Oggi».

Sarebbe stato facile accorgersi che la loro rendita era finita, quando Rodotà fu chiamato Rodo-tà-tà. Dopo l’aggiunta del secondo «tà», Rodotà non è più lui. Non può più avanzare impettito, ieratico e tremolante come un tacchino che fa la ruota. Rodo-tà-tà è, d’improvviso, diventato come tutti gli altri. E se vede nella possibilità del premier di liberarsi di un ministro con il quale non va più d’accordo il segno di una svolta autoritaria, viene valutato per ciò che dice. E lo si calma, portandolo fuori dove c’è un caldo primaverile che è un piacere.


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