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Dallapiccola mette d’accordo Napolitano e Barroso

Domenica 27 aprile, dopo la cerimonia della doppia canonizzazione, il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano (accompagnato dalla signora Clio) ed il Presidente della Commissione Europea Barroso sono andati al Parco della Musica ad ascoltare un concerto diretto da Antonio Pappano.

Li ha attirati soprattutto il tema del concerto: la libertà, letta tramite la scena della prigione di “Fidelio” e gli ultimi due movimenti della nona sinfonia di Beethoven ed il “Prigioniero” di Dallapiccola – grande capolavoro poco eseguito in Italia. Riservandomi di commentare altrove il concerto credo sia importante ricordare la figura e l’opera di Dallapiccola (ed il significato che essa ha) perché sul grande didatta e compositore è stata posta una coltre di oblio.

Luigi Dallapiccola (nella foto) è nato il 3 febbraio 1904 a Pisino (oggi Pazin), allora parte dell’Impero austro-ungarico. Figlio di un insegnante di lingue classiche diventato preside del locale “Realgymnasium”, imbevuto sin da giovane di cultura mittleuropea, ha potuto ascoltare a 13-14 anni, quando nel 1917 la sua famiglia era stata posta al confino a Graz quasi tutto Wagner, un bel po’ di Mozart e Weber. Una rappresentazione dell’”Olandese Volante” di Wagner lo convinse ad abbracciare la carriera di musicista. Nel dopoguerra, a Trieste, dove seguiva lezioni di pianoforte, apprese la teoria di Schönberg; la dodecafonia entrò nelle sue vene. Approdò a Firenze, che divenne la sua Patria di elezione, nel 1922. L’intenzione era di studiare al Conservatorio Cherubini per diventare pianista; nel 1924 ebbe l’opportunità di ascoltare “Pierrot Lunaire” diretto da Schönberg in persona; decise di diventare compositore. Divenne uno dei più importanti del secolo appena terminato.

Pure Renzo Cresti, notoriamente poco estimatore della musica del Novecento “storico” in quanto “appassionato della più stretta contemporaneità”, ricorda che “è stato “uno dei punti di riferimento dei musici fiorentini”. Dati i suoi frequenti soggiorni all’estero, soprattutto negli Stati Uniti sia negli Anni Trenta sia negli Anni Cinquanta e Sessanta, sarebbe più corretto dire che è stato un punto di riferimento per tutta la musica contemporanea: in un libro del 1978, quindi solo pochi anni dopo la morte di Dallapiccola (19 febbraio 1975, a Firenze, in seguito ad un edema polmonare), il musicologo americano, Ethan Morden definisce l’atto unico “Il prigioniero” come “l’esperienza ultima ed estrema del viaggio dell’opera moderna alla volta del mito”.

In occasione del centenario dalla nascita, era, doveroso che la Fondazione del Maggio Musicale lo celebrasse in grande stile, con nuovi allestimenti di due delle sue opere più significative “Volo di notte” e “Il prigioniero”, nonché chiamando uno dei maggiori direttori d’orchestra, Bruno Bartoletti (fiorentinissimo pure lui) specializzato nel repertorio del Novecento. Spulciando sul web, ci si accorge che per il centenario, la Radio Vaticana ha dedicato a Dallapiccola un ciclo di 13 trasmissioni e la Rai di 10; l’Accademia di Santa Cecilia ha eseguito l’oratorio scenico “Job”, l’Orchestra di Roma e del Lazio “la piccola serenata lunare”; il Teatro Massimo di Catania ha abbinato “Job” a “Il prigioniero”; a Città del Messico e a Buenos Aires è stato messo in scena un nuovo allestimento de “Il prigioniero” (opera spesso presente nei cartelloni di numerosi teatri, grandi e piccoli, della Germania e dell’Europa Centrale); a Cesena è stato messo in scena “Il Volo di notte” (coniugandolo con “Cavalleria Rusticana”); a Milano altra esecuzione, in forma di concerto, de “Il volo di notte”; le maggiori città tedesche ed alcuni grandi città americane hanno ospitato serate monografiche a musica di Dallapiccola; il conservatorio di Pisa ha organizzato un ciclo di nove conferenze ed una serie di concerti; alla Settimana Musicale Senese sono stati eseguiti “I canti di prigionia”. Per non citare che le iniziative più importanti. “Il prigioniero” – che io ricordi – è stato ripreso nel 2011 a Modena e Bologna con un’ottima direzione di Michele Mariotti.

Non è, quindi, mancata l’attenzione del mondo della musica, non solo italiana. Ci sono stati nei: a Roma si è fatto oggettivamente troppo poco, a Palermo è stato cancellato, quasi all’ultimo momento, il programma predisposto dal Massimo (in co-produzione con Catania, dove è invece andato in scena) e, soprattutto, nessun sovrintendente di teatri italiani ha trovato il coraggio di allestire il capolavoro ultimo, quell’Ulisse” a cui Dallapiccola ha lavorato per quasi metà della sua vita e con il quale voleva trasmettere il significato dell’esistenza per l’intellettuale che attraversa il Novecento, “il secolo breve”, secondo la definizione dello storico marxista Erich J. Hobsbawm. Il neo più significativo, però, è il fatto che non si sia utilizzato il centenario per una riflessione non solo tecnico-musicale ma sul ruolo di un intellettuale del valore e dell’importanza di Dallapiccola nella società italiana proprio in quel “secolo breve” ma non così distante.

Iniziamo con una riflessione a carattere editoriale. Si è fatto cenno al ruolo di Dallapiccola nello sviluppo della musica del Novecento a livello mondiale. In Italia, esiste una bibliografia, per così dire, nostrana, ad opera, però, principalmente di pochi autori (Fiamma Nicolodi, Sandro Perotti, Luigi Pestazzola, Giordano Montecchi, Sergio Sablich) pubblicata da case editrici universitarie; l’opera maggiore, e più diffusa, è quella di un tedesco, Dietrich Kämper. Se il panorama cartaceo è triste, quello discografico è tragico. Elvio Giudici, critico musicale de “Il Diario”, non cita neanche Dallapiccola nella monumentale (2000 pagine a stampa fitta) nuova edizione ampliata de “L’opera in cd e video”. Una ricerca di Giuseppe Rossi individua solo poche edizioni (prevalentemente in tedesco od in inglese) de “Il prigioniero”; l’unica trovabile (con difficoltà) in commercio in Italia è quella (molto diseguale) diretta da Esa-Pekka Salonen dieci anni fa per la radio svedese. Mi considero fortunato a possedere l’edizione (in italiano) curata nel 1975 da Antál Dorati (in LP poiché mai riversata in CD) ed ho per puro caso trovato in un negozio di dischi di Washington in via di dismissione il CD di un’edizione di “Ulisse” diretta da Ernest Bour (e con Claudio Desideri come protagonista) in occasione di una trasmissione radiofonica in Francia. Come mai le case discografiche – neanche quelle di punta come Dynamic o Bongiovanni – ha mai pensato di registrare “Volo di notte”, pur riconosciuto come una svolta capitale del teatro in musica del Novecento?

Per comprenderlo, occorre scavare in Dallapiccola e nell’accezione che il “secolo breve” assunse in Italia – fine dello stato liberale nel primo dopoguerra, fascismo, seconda guerra mondiale, bipartitismo imperfetto all’insegna del fattore “K”, terrorismo. Dallapiccola – si pensi – nacque mentre sonavano i rintocchi del requiem per un Impero defunto e morì nel bel mezzo della notte della Repubblica. Istriano, imbevuto di cultura dodecafonica non ebbe difficoltà a prendere decisamente posizione tra le due scuole che – come narra efficacemente Stefano Biguzzi – si contendevano l’attenzione del Capo del Governo (che, in effetti, guidava in proprio la politica musicale entrandone anche nei dettagli): quella dei tradizionalisti (guidata da un Mascagni, ex-socialista come Mussolini, ma con una vocazione inarrestabile al carrierismo) e quella dell’avanguardia (Casella, Malipiero, Rota, Alfano, Castelnuovo Tedesco).

Dallapiccola aderì anima e corpo alla seconda e fu, nonostante la giovane età, tra gli animatori dei festival internazionali di musica contemporanea di Venezia – il primo tenuto nel settembre 1930 e gli altri a cadenza biennale sino al 1942 – con il quale il fascismo intendeva offrire una controproposta a Salisburgo. Attorno alle biennali, riuscì a raccogliere il meglio della musica contemporanea dell’epoca (in primo luogo Stravinskij che stabilì un’amicizia forte e personale con Mussolini sino a seconda guerra mondiale ben inoltrata; tra gli altri, Milhaud, Gershwin, Prokofiev, Honneger, De Falla, Walton, Bartók, Krenek, Hindemith, Bloch, Scherchen, Berg – quindi anche molti di in Germania al bando in quanto “degenerati”).

Aveva vinto la cattedra di pianoforte al Conservatorio “Cherubini” di Firenze, ma furono le sue attività per la musica d’avanguardia (seguita da Palazzo Venezia con un’attenzione molto maggiore di quella che riceveva al MinCulPop) a farlo nominare “per chiara fama” titolare della cattedra di composizione: aveva acquisito reputazione internazionale con “Partita” e con “I cori di Michelangelo Buonarroti il Giovane”. Tenne la cattedra molto poco; avendo sposato nel 1938, Laura Luzzato (ebrea), la cui collaborazione incise non poco per tutta la sua vita (specialmente nella scelta dei testi letterari), si dimise all’emanazioni delle leggi razziali per tornare, sempre al “Cherubini”, a insegnare pianoforte.

Una rottura con il fascismo? Stava scrivendo e componendo “Volo di notte”, costruita proprio su alcuni punti forti di quella che allora veniva chiamata la “dottrina del fascismo”. Dopo qualche tempo, mentre proprio a Firenze imperversava la seconda guerra mondiale, lavorava a “Il prigioniero” – vietato, sino a tempi recenti, in molti Paesi dell’Europa centrale ed orientale. Il nesso tra le due opere è una frase di Nietzsche che Dallapiccola amava ripetere: “E se tu guardi a lungo dentro l’abisso, anche l’abisso guarda dentro di te”.

Nel “Volo” si specchia nell’abisso Rivière, manager di una compagnia aerea ed ideatore di un programma innovativo di traversate notturne per portare il corriere da una parte all’altra dell’America Latina, nonché dall’Argentina all’Europa; la forza dell’idea deve vincere sulla debolezza umana ed i suoi tentennamenti, perché “solo l’avvenimento in cammino ha importanza”. Ne “Il prigioniero” è il protagonista a specchiarsi nell’abisso: la voce suadente del suo carceriere gli infligge l’ultima tortura – la speranza della liberazione – prima di consegnarlo al Grande Inquisitore ed al rogo.

Curioso destino quello dell’accoglienza delle due opere di Dallapiccola. Nel 1940, “Volo” venne considerata come un’opera fascista (un pò per il tema ma soprattutto per l’ardita struttura musicale in cui dodecafonia si fondeva con tradizione). Anche se “Il Popolo d’Italia” trovò che la partitura poteva interessare solo “certe minoranze intellettuali” e che il tema non era tale da “tonificare i nervi ed animare l’entusiamo dei nostri aviatori”, ne “Il Lavoro” si sottolineò che l’opera mostra “fede, forza e preparazione per agitare in avanti la fiaccola della giovane musica italiana del tempo di Mussolini”. Nonostante la sua esecuzione in Germania venne subito vietata dalla Reichsdramaturgie, il Capo del Governo in persona volle che “Volo” venisse rappresentato al Teatro Reale dell’Opera Roma nel 1942, quasi a ridosso del “Wozzeck” di Alban Berg – altro lavoro all’indice nel Reich.

Nel 1950, “Il prigioniero” venne accusata di anti-comunismo viscerale (sono evidenti i nessi con Koestler, Sirone ed i lavori “dissidenti” di Sartre), nonché di essere “un groviglio di suoni tale che neanche l’orecchio più educato e più svelto riuscirebbe a districare” (così scrisse “L’Unità”). Da allora, si sono avuti una diecina di allestimenti di “Volo” in Italia (non ho contezza di quelli all’estero) ed una settantina di produzioni de “Il prigioniero” nel mondo (frequentissimi, dalla fine degli Anni Ottanta quelli in Europa centrale ed orientale).

In “Volo di notte”, tratto dall’omonimo romanzo di Antoine de Saint-Exupéry, l’abisso ed il suo specchio sono in un interrogativo: si può mettere a repentaglio la vita umana unicamente per un progetto (nel caso di innovazione tecnologica e commerciale)? I 23 capitoli del romanzo snodano una vicenda complessa che nell’arco di una sola notte si svolge in vari Paesi andini. Dallapiccola la sintetizza in sei scene con rigorosa unità di tempo e di luogo e sceglie una chiave precisa di lettura (molto forte se posta nel contesto del 1938-39 quando venne scritta e composta): la forza dell’idea sulla debolezza umana e sui suoi tentennamenti. Pure “Il prigioniero” nasce da un racconto, di Villiers de l’Isle-Adam. Il libretto venne scritto nel 1942-44, la “prima” si ebbe al “Comunale” nel 1950. Un prologo ed un atto i cui protagonisti sono stereotipi archetipi (la madre, il prigioniero, il carceriere, il grande inquisitore, i sacerdoti, il frate) è ambientato nella Spagna della Controriforma: l’”abisso” è nella speranza di liberazione, ultima tortura prima dell’esecuzione.

Un rimpianto. Perché Firenze – o un’altra grande fondazione lirica italiana – non ha colto l’occasione per mettere in scena il capolavoro ultimo di Dallapiccola, quell’”Ulisse” (un prologo e due atti), rappresentato a Berlino (in tedesco) nel 1968 (dirigeva Lorin Maazel)? In Italia ci sono state solo tre rappresentazioni sceniche (a fronte delle 25 de “Il prigioniero”) di cui l’ultima nel lontano 1986, a Torino. “Ulisse” è l’approdo sia musicale sia filosofico di Dallapiccola. La dodecafonia si dissolve in lirica sublime. Al termine del viaggio alla ricerca del significato dell’esistenza, Ulisse non guarda più nell’abisso, ma scoperto “l’Essere superiore” può dire:”non più soli sono il mio cuore ed il mare”.

Ecco alcune foto dell’evento

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