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Siamo paese perché non vogliamo essere comunità

Siamo in un perenne preludio wagneriano. Un eterno stato d’indeterminazione. Abbiamo già in parte dimenticato e continuiamo a dimenticare da dove veniamo. E, peggio, non sappiamo dove andare. Schiavi della contingenza dettata da una contingente politica priva di idee, ideali e strategia. Un eterno big bang che suona, però, più come un succedersi di bin bin bin e di bang bang bang da cui non quaglia nulla.
Per dire, oggi l’edizione domenicale del Sole24Ore, ricca di un sempre ricchissimo inserto culturale, c’è la sintesi di questo preludio di tensione senza destinazione. Sin dall’impaginazione. Il primo e l’ultimo pezzo sembrano messi distanti per evitare che i due che l’hanno scritto si possano guardare. Luzzatto a proposito del libro di Giulio Questi sulla Resistenza scrive che i partigiani – sognavano di partire per un qualunque posto e di non tornare mai più. Sognavano di impiccarsi insieme al Bergamino. Sognavano di strozzare il Prete. Sognavano di violentare la Ragazza-. Senza che la storia entrasse nei loro discorsi. E il titolo dell’articolo è “ La Resistenza senza mito”. All’ultima pagina, invece, il titolo della rubrica di Gualtiero Gualtieri è “I Sandali di Hermes”. Cioè il mito. Del Dio protettore dei confini, dei pastori, dei mandriani, degli oratori, dei poeti, della letteratura, dell’atletica, dei pesi, delle misure, del commercio e anche di ladri, truffatori e bugiardi.

Come fa un paese eternamente diviso, eternamente incapace di essere una comunità, figlio illegittimo di Mussolini e Badoglio, ad avere una rotta e perseguirla, quando Bersani tuona contro Renzi e contro la sua presunta deriva presidenzialista, e Alfano tuona dell’arresto di Dell’Utri del quale aveva bramato l’amicizia e la consuetudine della frequentazione?

Come ci si può stringere attorno a un obiettivo comune quando ogni programma, ogni proclama, ogni sussulto è buono solo per essere criticato e centrifugato fino a farne brandelli irriconoscibili.
Per dire, Renzi aveva in Oscar Farinetti uno dei suoi principali sostenitori. Un Farinetti che è imprenditore capace e astuto, abile con i numeri e con la comunicazione e che una dote importante. Oltre al successo, egli ha infatti dimostrato di riuscire capitalizzando al meglio una cultura, profondamente radicata nel tessuto del nostro paese: quella enogastronomica. Farinetti, dunque, avrebbe tutte le carte in regola per costruire la forra dentro la quale le tante buone semenze di questo paese potevano essere seminate. E invece no. Perché appena provi a scavare con l’aratro i solchi ecco che non solo i corvi (e ci sono sempre) ma anche gli altri coloni, gli altri eterni mezzadri di cui siamo avvelenati sono subito pronti a mangiarsi i semi appena gettati.
Crozza lo ha subito preso di mira infilandolo nella sua lavastoviglie del venerdì sera con l’anticalcare spesato, ovvio, anche dagli spot di EXPO. E così per buona parte degli italiani, anche Farinetti diventa il furbo, colui che troppo machiavellicamente ammicca sull’importanza dell’astuzia e della fortuna negli affari. Bah.
Per non parlare di EXPO, poi. Dove le declinazioni, “nutrire il pianeta” – “energia per il pianeta”, diventano occasione per uno strabismo totale. In nome del nostro vizio di disunire le forze sempre e comunque, ecco il padiglione che non mancherà sicuramente: quello del ring ai cui angoli ci sono Barilla e Petrini.

Come si fa dunque a unire le energie rimaste se di fronte all’imminente proposta di Etihad di rilevare le quote di Alitalia per farne loro grimaldello in Europa, Maroni tuona allarmato su cosa ne sarà di Malpensa. Un aeroaborto completo. Esempio della peggiore Italia. Costruito con materiali vecchi e scadenti. Un progetto vecchio già quando è nato manco fosse stato partorito dalla mente di Benjamin Button. Privo di qualsiasi logica intermodale, d’interconnessione con il resto delle infrastrutture di un paese dove ogni reuccio vuole l’aeroporto vicino casa. E che per rientrare, ancora, dell’investimento aspetta magari proprio i passeggeri che verranno per EXPO. Sic!

Per alcuni questo preludio, che avrà un momento di pausa, della durata di uno spot pubblicitario, in occasioni delle elezioni europee, in questi giorni sta suonando le note della resa dei conti. Anche perché la lentissima giustizia italiana, ha comunque dalla sua il tempismo, a scoppio ritardato. Facendo la figura di quello che in una conversazione con un sapido e acuto battutista rimane sempre a ridere a denti stretti rodendosi nella saliva di fiele per via della propria incapacità di saper rispondere a tono. Salvo poi, più in là nella conversazione, uscirsene con l’eccessivo e livoroso sarcasmo accumulato fino a quel momento.

Così come fuori luogo, sempre in questo zigzagare nell’italianissima voglia di disunire le forze, è stata Lilli Gruber che, a OttoeMezzo, ha inchiodato col gambo di una rosa (gambo e non quota) il direttorissimo Eugenio Scalfari con la seguente domanda: – Ma lei avrebbe diviso la sua donna con un altro uomo? –
Scalfari aveva appena finito di spiegare di essersi diviso tra due donne che lo riempivano, ciascuna, per metà. Motivo per cui lui, convinto che la sua metà bastasse a riempire ciascuna di loro, si sentiva con la coscienza a posto. Talmente a posto che alla domanda della Gruber è rimasto amminchialuto.

Dato che virtus in medio stat, Settis a metà dell’inserto del Sole24Ore, firma un articolo in cui seguendo il percorso tracciato da Anna Anguissola ci racconta di come le tecniche e l’arte della copia dell’opera d’arte si siano tramandate dall’antichità sino ad oggi. Ecco. Dato che non si è visto mai che l’umanità si sia tirata su senza la forza del mito, se proprio il mito non possiamo averlo, accontentiamoci almeno di una copia. Perché se solo già tornassimo a studiare il contesto, le tecniche e il linguaggio che lo fabbricarono avremmo dato destinazione a quel maledetto preludio che non smette di suonare.

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