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Vi spiego perché i tagli agli stipendi degli statali rischiano il flop

Grazie all’autorizzazione del gruppo Class editori pubblichiamo l’articolo di Domenico Cacopardo apparso su Italia Oggi, il quotidiano diretto da Pierluigi Magnaschi.

Si dice che il diavolo si celi nei particolari. Ma, in questi giorni, ci vorrebbe l’intervento personale di Dio per evitare che il governo Renzi finisca impallinato da tanti di quei particolari da costituire un fallimento.

Parliamo del decreto-legge del venerdì santo, quello salvifico per quei cittadini che potranno ricevere, da maggio a dicembre, un bonus fiscale di 80 euro al mese. L’art. 13 stabilisce che «_ dal 1° maggio 2014 il limite massimo retributivo riferito al primo presidente della Corte di cassazione è fissato in euro 240.000 annui al lordo dei contributi previdenziali e assistenziali e degli oneri fiscali a carico del dipendente».

Una norma, questa, figlia della campagna scatenata da varie parti contro gli alti stipendi a prescindere dalla qualità dell’incarico conferito o dell’impegno richiesto, e quindi molto popolare nelle mente di chi, venendo da Rignano sull’Arno, immagina che l’alta burocrazia statale sia un nemico da abbattere e da dare in pasto alla massa dei tricoteurs in giro dall’Alpe alle Piramidi.

Ma basterà che un dirigente pubblico qualsiasi o un magistrato, il giorno dopo avere ricevuto la busta-paga del mese di maggio presenti un ricorso, perché, in pochi mesi salti, l’impianto legislativo, a meno che il Parlamento, con l’aiuto dei propri servizi giuridici, non cambi radicalmente la norma. Infatti –cosa che qualsiasi praticante di diritto pubblico e amministrativo dovrebbe sapere- essa colpisce i diritti acquisiti e l’autonomia contrattuale delle parti.

Mi spiego: con un atto unilaterale del governo, meglio dello Stato (se le camere approveranno) non si possono ridurre le legittime spettanze, già stabilite, di qualsiasi categoria di dipendenti pubblici. In secondo luogo, gli stipendi in busta paga dei dirigenti dello Stato si compongono di due voci: lo stipendio in senso stretto e un compenso connesso all’incarico conferito stabilito con un atto contrattuale stipulato tra l’Amministrazione e l’interessato.

Questo atto contrattuale, definito con la legislazione vigente al momento della firma, ha durata variabile da 3 a 5 anni. Esso non può essere modificato con un atto d’imperio durante il suo periodo di validità.

Diciamocelo francamente: nella renziana bulimia di parole non c’è spazio per chiamare le cose col loro nome. Si ricorre a fictiones per chiamarle in modo diverso.

In sostanza, invece di ricorrere allo strumento fiscale (le imposte), l’unico utilizzabile per ottenere una perequazione, come confermato di recente dalla Corte costituzionale, si preferisce parlare di taglio degli stipendi. Mai di nuove tasse. Il sistema salterà per mano di quei giudici cui Renzi stesso vorrebbe togliere legittimazione: i magistrati dei Tar che, quando saranno interpellati, dovranno trasmettere gli atti alla medesima Corte costituzionale.

C’è un altro elemento che incide sulla coerenza del decreto-legge e lo si trova nelle premesse (un’altra diavoleria che, di certo, gente tutta politica come Delrio non dovrebbe avere letto con attenzione). In esse, pregne di declamazioni drammatiche, non ci si riferisce all’intervento sugli stipendi pubblici, a meno che esso sia all’interno del concetto «garantire la razionalizzazione, l’efficienza, l’economicità e la trasparenza dell’organizzazione degli apparati politico istituzionali e delle autonomie locali».

Insomma, ci vuole proprio la personale mano di Dio per impedire che l’esperimento Renzi, macchiato dall’incompetenza, finisca nel ridicolo. E l’Italia nel precipizio.


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