[…] Sono stato abituato a considerare la povertà come un fatto naturale nella vita di un uomo sin da quando avevo nove anni. Venivo da una famiglia del ceto medio: non troppo povera da poter essere paragonata agli indigenti, ma nemmeno nelle condizioni di offrire più che un semplice piatto di riso a chi bussava alla nostra porta. Mi ricordo di una volta in cui ho offerto una banana ad una ragazza con molti figli smunti ed emaciati attorno. Dopo aver sbucciato il frutto lo addentò istintivamente senza offrirlo ai suoi bambini, ma dopo essersi resa conto di ciò che aveva fatto scoppiò a piangere e guardandomi confusa disse: “non siamo più esseri umani, i nostri istinti sono peggiori di quelli animali” .
“La povertà non è insopportabile non solo perché rende le nostre vite precarie e insicure, ma anche perché l’indigenza estrema ci priva dei normali sentimenti umani. Dunque perché tolleriamo la povertà?” E’ questo il grande interrogativo che si pone l’economista indiano Amartya Sen in un recente articolo per la rivista inglese Prospect. Attento e acuto come sempre sui fattori umani e sociali della scienza economica, Sen osserva che “l’incidenza della povertà varia a seconda dei Paesi, ma nessuno Stato è avulso da questa piaga. Come è possibile che le persone più o meno benestanti riescano a scendere a patti con la orripilante sofferenza di chi si trova sotto di loro?”.
Amartya Sen considera tre spiegazioni possibili:
– La disinformazione delle persone;
– Il realismo pessimista di chi pensa che le disuguaglianze non possano essere rimosse;
– L’egoismo di chi vede l’uomo come un animale egocentrico attento solo al proprio benessere.
La decadenza economica indiana, dice l’economista, è iniziata attorno agli anni ’50 del secolo scorso a causa del dominio britannico sulla penisola, che avrebbe riportato alcune zone del Paese indietro di molti secoli in termini di reddito pro capite. Tuttavia accanto a tali situazioni povertà estrema convive una classe medio-borghese probabilmente non benestante come i colleghi d’occidente, ma sicuramente abbastanza da potersi garantire uno standard di vita dignitoso.
Tuttavia concentrandosi solo sulla distribuzione dei redditi privati non si coglie appieno il dramma dei poveri: l’India è infatti tra i paesi che spende meno per i servizi sociali e questo acuisce e rinforza le disuguaglianze tra i ceti. Tale fattore sembra pesare sull’incidenza della povertà persino più delle tanto odiate classi. Lo stato del Kerala (noto alla cronaca italiana per la vicenda dei marò) è una delle zone più integraliste dal punto di vista della divisione classista, ma il tenore medio della povertà è tra i più bassi dell’India grazie a servizi sociali e spesa pubblica di buon livello. “Appare dunque sufficientemente chiaro che il sistema delle caste incide in modo molto diverso sulla distribuzione dei redditi in base al quadro politico della zona”, arguisce il premio Nobel. Sarebbe interessante sapere quanto le caste pesino invece sul benessere in termini di fattori non sintetizzabili tramite qualche indicatore economico (felicità, aspettative, prospettive di miglioramento sociale), ma Sen rimanda il problema ad altre sedi.
La considerazione centrale che emerge dalle sue parole è la stretta relazione tra crescita economica e social capabilities, che in italiano può essere reso come “attitudine storica e culturale di una società”: una maggiore spesa statale sarebbe in grado di favorire lo sviluppo del capitale umano, migliorare le condizioni di vita tramite un’adeguata redistribuzione dei redditi e aumentare la produttività di lavoratori che, altrimenti, stentano a mantenersi in piedi sul posto di lavoro a causa della denutrizione. A dire il vero questa visione era stata abbracciata dai pionieri dello sviluppo industriale indiano degli anni ’50, ma le politiche governative hanno disincentivato e osteggiato questa strada.
In qualche modo ciò toglie legittimità alla seconda spiegazione avanzata, cioè quella dell’ineluttabilità della disuguaglianza, e allo stesso tempo liquida severamente l’idea della natura intrinsecamente egoista dell’uomo. “Chi crede nell’egoismo come motore delle nostre società si è limitato a leggere solo poche frasi degli scritti di Adam Smith, ignorando il resto della trattazione e la complessità teorica suggerita dal filosofo scozzese”.
La conclusione secca e lapidaria del filosofo lascia poco spazio agli indugi: “se la tolleranza dell’intollerabile deriva in ultima istanza dalla disinformazione piuttosto che dall’egoismo umano, allora possiamo permetterci di tirare un sospiro di sollievo. Tuttavia capiamo bene che c’è ancora molto da lavorare”.
Se risulta difficile fare previsioni per l’India, non possiamo ignorare che solo pochi giorni fa il Censis ha stimato che i 10 italiani più ricchi guadagnano come 500.000 famiglie operaie. Ora che abbiamo la consapevolezza, speriamo si abbia l’onestà di mettersi al lavoro.