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Berlusconi e i colpi di Stato “democratici”

Quanti sono soliti abbeverarsi a schematismi culturali e ad ideologismi marxisti, stentano a comprendere il senso della complessità e del pluralismo sociale e persino i meccanismi e il valore degli ordinamenti statuali. Lo si può notare anche in ordine alle recenti polemiche – alcune sollevate da uomini politici di alto prestigio e perciò fortemente contrastati, come Silvio Berlusconi; altre dovute alle campagne editoriali e commerciali lanciate nell’imminenza della Fiera del Libro di Torino – attorno al concetto e alla esecuzione dei colpi di Stato.

Insomma, in troppi sono indotti a ritenere che colpo di Stato sia sinonimo di putsch militare, di golpe effettuato – nell’antichità come oggi – con sollevazioni di armati contro il proprio capo o contro il potere politico, con massacri di persone, cominciando dai vecchi capi abbattuti. Poco si riflette che il colpo di Stato può anche non essere cruento; e passare, invece, attraverso un atto politico, una votazione non conforme alle tradizionali procedure. Persino il colpo di Stato di Vittorio Emanuele III del 25 luglio 1943 per defenestrare Mussolini e sostituirlo col generale Badoglio, fu perpetrato grazie ad una ordita approvazione di un odg di Dino Grandi portato alla decisione del Gran Consiglio del fascismo, un organo costituzionale la cui ultima riunione risaliva al 1939, prima dell’entrata in guerra dell’Italia.

Ma il problema è più sottile. E impone di chiedersi: 1) se si possa parlare di colpo di Stato in presenza di una democrazia formale; 2) e come debba essere considerato un atto sostanziale di forza di un capo dello Stato che destituisce un presidente del consiglio eletto da milioni di elettori, sostituendolo con propri uomini di fiducia, da lui nominati in base a personali vedute politiche. È questo, invero, il punto del contendere odierno. Per evitare invasioni di campo, come per invocare libertà d’espressione, può aiutare riandare col ricordo alla patria della democrazia antica: all’Atene repubblicana, che raggiunse il suo apogeo con l’età di Pericle. E che declinò con lo svilupparsi e l’estinguersi della lunga Guerra del Peleponneso, coinvolgente Atene e Sparta, ma anche le alleanze elleniche e quelle con Siracusa e Segeste.

Premessa. Prima, durante la primazia di Pericle e successivamente, Atene si diede più di cinquanta costituzioni, non una per sempre, anche se inefficace, come si pretende dalle nostre parti da decenni. Perché così volevano i cittadini ateniesi che avessero compiuto i diciotto anni, qualunque fosse la loro condizione sociale. Le regole e le responsabilità variavano; ma tutti i partiti dell’epoca si riconoscevano in almeno due organismi: nell’Ecclesia (il parlamento), che poteva legiferare sulla pace, sulla guerra, le alleanze, nominare gli ambasciatori, mentre i suoi membri ricevevano due oboli (gettoni di presenza) per ogni giornata di lavoro andata persa per dedicarla alla politica; e nella Bulé (una sorta di senato), cui spettava la convocazione dell’assemblea ed era presieduta dai pritani. Tutti i cittadini avevano pari diritto di parola e pari diritti giuridici; si votava per alzata di mano o per acclamazione o, in casi speciali, a scrutinio segreto. Con la riforma di Clistene venne introdotto il quorum: le decisioni dell’Ecclesia erano valide solo se votavano almeno 6 mila cittadini, corrispondenti a circa un quinto degli abitanti dell’Attica. Esisteva un potere legislativo che legiferava attraverso decreti; il potere giudiziario era sotto il controllo del potere esecutivo, cui competeva la nomina di tutti i magistrati. La Bulé, come accadeva per il senato di Roma, curava le relazioni esterne, vigilava sulla sicurezza della città, controllava l’esercito, ma esercitava anche il controllo preventivo, la vigilanza e il controllo successivo (o rendiconto) sull’operato dei magistrati; gestiva le finanze pubbliche e curava il bilancio dello Stato.

Nella primavera del 411 a.C. il sofista Alifonte, sostenuto da capi politici e strateghi militari come Alcibiade, Teramene e Pisandro, operò un primo colpo di Stato col quale si pose fine alla democrazia e si instaurò un regime oligarchico. Gli oligarchi abolirono la Bulé democratica e la sostituirono con una diversa Bulé, costituita da membri scelti da un’opposizione alla quale attribuirono la facoltà di eleggere i magistrati dello Stato; nel regime democratico, i membri della Bulé erano invece scelti tramite sorteggio cui tutti avevano la possibilità di partecipare senza differenze di censo. La nuova Bulé introdotta col colpo di Stato del 5 giugno, era costituita da Quattrocento membri, cinquanta per tribù distribuite tra i demi in proporzione alla popolazione residente; smantellò il regime democra¬tico, decise la gratuità della magistratura e di tutte le cariche pubbliche, riconsegnò la politica ateniese nelle mani dei ricchi, assassinò o esiliò gli oppositori. Nell’autunno dello stesso anno, l’esperienza oligarchica, durata quattro mesi, si concluse perché non funzionava e non convinceva quanto a ordinamento e venne così ripristinata la Bulé dei Cinquecento. Dopo tentativi di forzature da parte della fazione radicale di Crizia, la fazione più moderata (Teramene e Aristocrate) reagì allargando il potere a una assemblea di cinquemila cittadini, tra cui erano stati scelti i Quattrocento.

Nel breve intervallo fra il colpo di Stato e il ripristino della democrazia, l’inimitabile comico-filosofo Aristofane mandò in scena ad Atene Le Ecclesiazuse (Le donne al parlamento), opera brillantissima nella quale Lisistrata e le sue compagne (i personaggi principali della commedia aristofanesca), travestitesi da uomini, occupavano la Pnice (il colle sul quale si radunava l’assemblea, a ridosso del Partenone) ed approvavano una legge che concedeva tutti i poteri al genere femminile; decidendo inoltre che le terre, il danaro, tutti i beni d’ogni tipo sarebbero stati messi in comune, mentre gli schiavi avrebbero lavorato la terra, in modo che nessun cittadino avrebbe più dovuto lavorare per potere sostentarsi. In più, Lisistrata e compagne stabilivano che, abolita la famiglia, per legge anche le donne vedove e brutte acquisivano lo stesso diritto di quelle giovani e belle di essere possedute dai giovani e sessualmente possenti: cui si negava per legge il diritto di rifiutarsi a fornire prestazioni sessuali a comando anche alla più anziana e zozza delle donne. Esilarante il personaggio della ateniese più vecchia e laida che circuiva e sequestrava il ragazzo più ambito della città, la cui virtù veniva invece concupita dalle signore più piacenti e più ricche di Atene.

Aristofane non era né un femminista, né un comunista. Potrebbe essere riguardato come un fermo sostenitore di un miglioramento civile della società ateniese restando un rigido conservatore. In ogni caso il commediografo restò nella storia di Atene come un utopista mirante a proclamare l’uguaglianza dei cittadini e ad affrancarli da ogni pregiudizio. Senza volerlo, la Lisistrata di Aristofane era l’ideatrice e l’autrice di un colpo di Stato. Ma un autentico mutamento di regime l’avevano compiuto, in associazione, oligarchi e radicali, mentre, per ripristinare la vera democrazia ateniese, si sarebbe dovuti tornare alle regole classiche di Pericle. Rimodulando gli organi rappresentativi, i poteri legislativi e giudiziari, allargando l’esercizio del controllo politico e finanziario al massimo numero possibile riunibile in una assemblea popolare, Atene, almeno per un po’, recuperò la sua caratteristica di patria della democrazia antica. Mentre l’intrigo satirico di Aristofane indicò ai posteri che esporre le donne in parlamento certamente cambiava verso agli antichi privilegi maschilisti e tuttavia creava anche inconvenienti: di cui le stesse signore ateniesi provvidero a liberarsi. Un po’ per celia, un po’ per potere tornare ad essere le custodi e padrone dei focolari domestici, vale a dire le strutture portanti della società ateniese, religiosa e laica.



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