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Disuguaglianza batte giustizia 50mila a 1

Non che la tendenza non fosse già manifesta, ma l’ultima misurazione del Censis ci ha mostrato il dato in tutta la sua crudezza: i 10 italiani più ricchi posseggono un patrimonio pari a quello di circa 500mila famiglie di estrazione medio-bassa. Entrambi posseggono 75 miliardi di euro, ma verosimilmente nessuno avrebbe indugi nello scegliere a quale delle due fazioni vorrebbe appartenere.

I media hanno annunciato la notizia con l’esemplare sdegno del commentatore che, pur conscio suo gravoso compito della terzietà, non riesce a contenere un fremito di riluttanza nel portare avanti il racconto; ma la cosa su cui urge una riflessione è l’assuefazione generale e l’atteggiamento prono nei confronti di un’ingiustizia con cui pare ormai siamo avvezzi a convivere.

In piazza non si vedono infatti né indignados, né movimenti alla Occupy Wall Street, né rivoluzionari di variegata manifattura pronti a prendersi la Bastiglia, eppure è evidente che le cose non sarebbero dovute andare così. Nelle scuole ci raccontano infatti da almeno sessant’anni che il progresso tecnologico e la crescita economica avrebbero debellato la povertà, sconfitto le malattie e persino permesso all’uomo di abitare sulla luna. Non spetta a noi giudicare il carattere ingenuamente positivista di tali miti, ma ci interessa – o almeno dovrebbe interessarci – capire cosa sia andato storto.

Gli almanacchi di economia sono ricolmi di modelli ed equazioni che mostrano con pochi passaggi l’incontrovertibile evidenza dei grandi benefici che dovrebbe produrre il processo capitalistico: l’accumulazione di capitale favorisce l’investimento, che stimola la produzione, che favorisce l’occupazione, che incentiva i consumi, che aumentano i redditi che, in ultima istanza, provocano anche un livellamento delle disuguaglianze. Il tutto alimentato e favorito dal progresso tecnologico e dallo sviluppo del capitale umano.

La cosa realmente interessante tuttavia risiede nel fatto che oggi sempre più persone si rendono conto della probabile inesistenza di quella catena causale, con buona pace della teoria della crescita economica tradizionale.

Probabilmente occorre constatare nuovamente che crescita economica e democrazia non vanno nemmeno così di pari passo. Usiamo l’avverbio “nuovamente” sperando non ci sia bisogno di ricordare che già molti hanno sottolineato da tempo il problema. Tormentoni economici del secondo ‘900 come la concorrenza e gli incentivi alla libertà economica privata non si sono concretizzati nell’economia del benessere di Vilfredo Pareto, ma alla luce dei fatti hanno verticalizzato una piramide già molto irta, rafforzato le concentrazioni di potere e raccolto la ricchezza nelle mani di pochi. Per un rapido approfondimento della questione, per chi non avesse voglia di ripercorrere l’intera genealogia della critica capitalista, segnaliamo questo nostro articolo a riguardo: “Capitalismo e disuguaglianze: la sfida di Piketty”

Non dovremmo pertanto restare stupiti davanti all’allarmismo generale e all’evocazione più o meno sommessa della tensione sociale come conseguenza di tale situazione. I più attenti potranno persino dire che infondo è già dai tempi della Rivoluzione Industriale che un tizio nato a Treviri ci ha avvertiti sugli esiti di quella che, più che una crescita benefica, ha tutte le connotazioni di una fiumana nel progresso.

Non vogliamo concludere con un appello di bassa retorica che evochi la necessità della buona arte del governo. Ci piacerebbe solo pensare che quell’odioso rapporto di 500.000 a 10, non aumenti dal lato sbagliato. La storia ci insegna che se così fosse gli esisti potrebbero essere diversi e non tutti auspicabili.


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