“Affari & Finanza” è andato in edicola in versione “una e trina”. Sulle nomine nelle società controllate dal Tesoro (e in particolare Eni, Finmeccanica ed Enel), infatti, il supplemento economico del lunedì del quotidiano la Repubblica ha visto esibirsi ben tre firme di punta: il vicedirettore del quotidiano Massimo Giannini, la penna “storica” Alberto Statera e Gianfilippo Cuneo, grande vecchio della consulenza strategica, oltre vent’anni in McKinsey, una dozzina in Bain Cuneo e da una decina alla guida di fondi d’investimento.
Cuneo sostiene che il governo di Matteo Renzi ha sprecato un’occasione: le società controllate dal Tesoro potrebbero incrementare la propria capitalizzazione del 20% se solo liberassero la governance, affidando agli azionisti privati l’indicazione dei vertici societari. Rappresenterebbe il segnale, assicura Cuneo, che vengono tutelati gli interessi dell’azionariato prima di quelli della politica.
Giannini, però, nel suo editoriale boccia, sia pure in punta di fioretto, proprio i soci privati. Colpevoli, tanto all’Eni che in Finmeccanica, di aver detto “no”, nelle recenti assemblee, alla clausola di “onorabilità dei manager”, proposta dal Tesoro quando lo reggeva Fabrizio Saccomanni e fatta propria dal successore Pier Carlo Padoan. Di che si tratta? Dell’ineleggibilità e/o della decadenza dei manager in caso anche solo di loro rinvio a giudizio. Giannini ammette che “queste regole non esistono in nessun altro Paese del mondo”. Ma chiama ad avvalorarle l’anormalità dell’Italia. “Bisognerà pur tener conto – è la sua opinione – di che Paese è l’Italia, precipitata agli ultimi posti nella classifica di Transparency International”.
Senonché, Giannini sembra dimenticare che le classifiche sulla corruzione – compresa quella, recente, dell’Unione europea – non sono il frutto di criteri oggettivi, a esempio le condanne, ma soggettivi, a cominciare dalla “sensazione” che si ha del Paese. Non a caso, nella presentazione della graduatoria di Transparency International si indica, correttamente, che riguarda la “percezione di corruzione”.
Una percezione creata dalla cosiddetta opinione pubblica. Un soggetto magmatico, ovviamente influenzabile dal can can mediatico-giudiziario che domina da un quarto di secolo le cronache nel nostro Paese. Quando, poi, come più volte è capitato, l’assoluzione pone fine a un’inchiesta che aveva impazzato per mesi se non anni, c’è spazio appena per una breve: un’altra clamorosa inchiesta preme. E’ capitato, tanto per fare un esempio, al nulla di fatto relativo alle indagini, che avevano decapitato anche la Polizia, sugli appalti Finmeccanica.
Ma, a mettere apparentemente la parola fine alla sfida Giannini-Cuneo, arriva Statera nella sua consueta rubrica “Oltre il giardino”. Nella quale, altro che usare il fioretto. Dopo aver citato ancora una volta “Transparency International”, sia pure in forma interrogativa, Statera dà l’affondo giustizialista. Che suona tanto di domanda retorica. Il voto alle assemblee di Eni e Finmeccanica – si chiede – non è “piuttosto un viatico per perpetuare gestioni opache, quando non delinquenziali?”. Un viatico. Per gestioni opache, se non delinquenziali. Chi potrebbe arrischiarlo? E il cerchio di “Affari & Finanza” si chiude. Su Cuneo. E anche su Giannini.